Il collettivo Motus, guidato da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, sorprende ancora una volta con il progetto Frankenstein_diptych (a love story + history of hate): lontano da qualsiasi adattamento “classico” del romanzo di Mary Shelley, questo lavoro esplora il confine sottile tra umanità e mostruosità, trasformando la scena in un laboratorio emotivo e politico.
Il progetto si divide in due momenti: Frankenstein (a love story) (2023), che affonda nel desiderio di riconoscimento e nel bisogno d’amore della Creatura, in una danza di corpi ibridi e marginali, e Frankenstein (history of hate)(2025), che ne rappresenta il rovescio: una società che respinge, un odio che esplode, un’umanità che si autodistrugge nella paura dell’altro.

I Motus ribaltano il punto di vista: la Creatura non è più l’aberrazione, ma lo specchio delle nostre paure. Il rifiuto, la solitudine, la ricerca di amore si trasformano in forze tragiche. E’ proprio la Creatura a porsi le domande più sofferenti, che scavano e fanno male. In scena, la diversità fisica e identitaria diventa una metafora della diversità umana. Il pubblico è invitato a confrontarsi con i propri pregiudizi, messo nella stessa situazione dello scienziato e uomo Frankenstein.
Il palco, spoglio e vibrante, dove sottili teli diventano fondali e quinte trasparenti, si trasforma in un campo di battaglia dell’anima. La fisicità degli attori, la musica quasi senza soluzione di continuità, i video e la luce costruiscono un’esperienza immersiva. Il lungo video (forse troppo invasivo, rischiando di appiattire sullo schermo la dimensione teatrale) della seconda parte amplifica la solitudine di creatore e creatura, fino a farla diventare una condizione collettiva.
I Motus continuano il loro discorso sul diritto all’autodeterminazione dei corpi e delle identità, confutando l’idea stessa di conformità con la riproposizione della complessità della realtà di fatto. Un teatro fisico, politico e poetico, che alterna tensione e silenzio, fragilità e rabbia.

La relazione tra la Creatura e Victor Frankenstein diventa una riflessione sulla paternità e sulla responsabilità del potere. Il creatore fugge davanti alla propria opera, incapace di accoglierla, ma la rincorre disperato. È un gesto che risuona nel presente: cosa succede quando non riconosciamo ciò che abbiamo generato — culturalmente, socialmente, affettivamente? Il lavoro interroga la nostra incapacità di prenderci cura del “diverso” (qualunque cosa si intenda con questa espressione), del fragile, del “figlio” che non corrisponde alle nostre aspettative.
Frankenstein_diptych parla del desiderio di accettazione, della paura del rifiuto, della violenza dell’indifferenza, costringendoci a guardarci allo specchio e a riconoscere che il mostro è la nostra creazione di una comunità priva delle capacità di ascolto e accoglienza.
(foto: motusonline.com)




















