Appunti sparsi sul cinema di James Cameron (2)

Lindsey annega nel batiscafo di "Abyss"

Quello di James Cameron è un cinema che vive di gigantismo, di architetture e macchine enormi rispetto alle dimensioni dello spazio scenico abitabile. Dal processore atmosferico di Aliens agli autosnodati dei due Terminator, fino al “gigante dei mari” per antonomasia di Titanic, tutto è eccessivo e deborda dallo schermo.

Le produzioni, i set e i relativi costi di ogni impresa del regista finiscono regolarmente per superare ogni record (e ogni budget preventivato, per la preoccupazione e in alcuni casi la disperazione delle case cinematografiche).

La scenografia cameroniana attinge dall’immaginario delle immense distese dell’”on the road”, dal titanismo del filone catastrofico, ma anche dagli ambienti di Stanley Kubrick o di Michelangelo Antonioni, dove i personaggi appaiono dispersi nelle proporzioni di un mondo (e, parallelamente, di un universo sociale) che si estende, sovrasta, che sfugge a ogni possibilità di controllo.

Ma se da una parte le sale e i corridoi dell’Overlook Hotel si allontanano dall’umano nella loro immensità, dall’altra i cunicoli di Hadley’s Hope, i corridoi allagati del Titanic, i sommergibili di Abyss si stringono sugli attori, convergono in una geometria claustrofobica che ha l’effetto di comprimere azioni e inquadrature.

Anche dove c’è lo spazio per volare il mezzo preferito è l’elicottero, macchina volante urbana, che può restare quasi fermo. Persino l’aereo utilizzato in True Lies è un Harrier, scelto proprio perché può muoversi verticalmente in modo simile appunto all’elicottero; il finale di questo film, che pure ha a disposizione il cielo di una città, si risolve nei pochi metri quadri disponibili sulla superficie e nella carlinga del caccia.

Abyss è poi una vera e propria progressione nella claustrofobia, nell’unico film di Cameron dove il tema del viaggio è affrontato non come una “fuga da” (i suoi personaggi sono sempre o inseguitori o inseguiti) ma come un “andare verso”, anche se il percorso è una discesa obbligata senza apparente via d’uscita.

Da un sommergibile nucleare che affonda si passa a una base sottomarina, dove i corridoi sono poco più di tubi imbullonati l’uno all’altro, a stretti batiscafi che si allagano, a piccole botole d’ingresso (chiuse!). Ovunque si combatte con la pressione che schiaccia, con l’ossigeno che finisce, con i portelli e gli oblò che implodono.

Si arriva a scoprire che l’unica via di salvezza è proprio lasciarsi annegare, ora nella speranza di essere rianimati, ora nel chiudersi in una tuta da palombaro che viene riempita di un liquido speciale; è una miscela che permette di respirare annegando, surrogato ad alta tecnologia del liquido roseo “che tutti abbiamo respirato prima di nascere”.

Dalla claustrofobia di Cameron si rinasce (il tema del parto, fisico o metaforico, è un’altra costante nella sua filmografia) e si rinasce mutati, a livello fisico, mentale, sociale: l’equipaggio del Deep Core supera la necessità della decompressione, nell’intervallo tra i due Terminator Sarah Connors smette i panni post adolescenziali per accumulare muscoli e capacità combattive, dopo il Titanic una nuova Rose Dawson sceglierà il suo posto nella società del 1900.


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