Anno: 2015

  • Star Wars VII – Il non risveglio della Forza

    Star Wars VII Il risveglio della Forza

    (ATTENZIONE: QUALCHE SPOILER)

    Harrison Ford scende dal Millennium Falcon e incontra Carrie Fisher.
    “Anche tu qui?” chiede lei, “Che cosa ci fai?”
    “Be’, è bello rivederti,” risponde lui, “sto cercando di fare quello che posso per salvare questo film”.
    “Capisco”, ribatte lei, “Non saresti dovuto tornare. Nemmeno io, del resto”.
    “Lo so,” conclude lui, “ho un gran brutto presentimento”.

    Accontentatevi del trailer: le emozioni sono già tutte lì. Il problema principale di Star Wars VII non è tanto quello di non essere all’altezza come seguito della trilogia conclusa con Il ritorno dello Jedi, quanto di non essere nemmeno un buon film in sé.

    Intendiamoci, il film non narcotizza, che per le sue due ore di situazioni ripetitive è un risultato discreto, ma è appunto ripetitivo; non lo è tanto perché ripropone situazioni della trilogia originale quanto perché ripropone più volte le sue stesse situazioni, privandole dell’aura che potrebbe eventualmente derivare dalla loro unicità.

    Gli scontri X-Wing vs TIE Fighter, una volta riservati per l’inizio o la fine, vengono qui replicati più volte e stancano, nonostante la loro ricchezza visiva. La terza pseudo Morte Nera viene distrutta sempre nello stesso modo: almeno nel film precedente bisognava penare un pochino per disattivare uno scudo protettivo, qui basta prendere in ostaggio il primo pirla che passa, anzi, la prima pirla (dimenticavo l’importanza dell’elemento femminile) e dirle di spegnere tutto prima di buttarla nel tritarifiuti e minare il posto.

    Star Wars VII Il risveglio della Forza

    Il supercattivo Kylo Ren è poco più di un cosplayer di Darth Vader di cui conserva il casco come un fan. Se suo nonno fosse ancora in giro gli direbbe che è maldestro oltre che stupido e lo soffocherebbe insieme a buona parte dei veteroimperiali che popolano la galassia lontana lontana. Kylo si svela troppo presto, togliendosi la maschera, e non contento se la toglie due volte, togliendo al contempo se possibile ancor più sacralità al disvelamento, considerato poi che non c’è molto da svelare oltre al volto di Adam Driver. Il personaggio non si sviluppa e quando le rivelazioni che lo riguardano arrivano è troppo presto e lasciano indifferenti.

    Che cosa rimane da salvare? Gli stormtrooper, mostrati nella loro cattiveria ma anche nella loro umanità. Il droide BB-8, fin troppo ammiccante. Poi vertiginose sequenze di azione e qualche dialogo divertente, anche se l’unica battuta azzeccata è quel “Chewbe, siamo a casa” pronunciato già nel trailer da Harrison Ford. Proprio il vecchio Han Solo e il suo amico peloso sono forse l’unica cosa veramente buona del film, anche se loro stessi sembrano esserne fin troppo consapevoli, tanto da dialogare direttamente con il pubblico più che con gli altri personaggi sullo schermo.

  • L’arrivo di un treno: da La Ciotat a Pordenone

    L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat

    Sono passati centoventi anni esatti da quando i fratelli Lumière hanno ripreso L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1895). Il breve film (meno di un minuto) è uno dei più famosi della storia del cinema, non il primo ma comunque un simbolo, e mostra appunto un treno che arriva a una stazione.

    Questa mattina mi giunge sul telefono l’avviso di una trasmissione via Periscope dalla stazione di Pordenone.

    Alberto Farina Periscope

    Con un’angolazione dell’inquadratura per un attimo molto simile a quella usata dai fratelli Lumière, Alberto Farina sta facendo uno dei suoi quotidiani interventi in cui illustra il palinsesto della giornata del canale Rai Movie. Ed ecco arrivare anche qui un treno, che Farina prenderà e da dove continuerà il suo discorso.

    Certo il secondo evento non è epocale quanto il primo ma è rappresentativo di una mutazione. In un certo senso la trasmissione di Farina chiude il ciclo aperto dai Lumière: la riproduzione realizzata con mezzi al tempo prodigiosi è divenuta quotidianità, coinvolgimento im/mediato che mette sullo stesso piano autore e spettatore.

    Periscope non è la prima Internet tv personale ma è comunque un simbolo della omawqatsi(1) dei nostri tempi; è l’ennesimo e forse più potente invito a “farci media”, a creare un palinsesto televisivo della nostra vita, a trasportare noi stessi nello spazio sociale dell’immagine trasformandoci in merce spettacolare, a metterci in mostra in una interazione con il potenziale pubblico mondiale; parafrasando quel misto di McLuhan e Debord che è il professor O’Blivion di Videodrome, è il nostro ultimo “divenire tv”, diventare parte della videoallucinazione che fa convergere i media elettrici.

    Una famiglia giapponese guarda la diretta tv dello sbarco sulla Luna della missione Apollo 11.

    Lo sbarco sulla Luna della missione Apollo 11 (un altro “arrivo del treno”) è stato l’evento rappresentativo dell’unione mondiale (o quasi) in una diretta televisiva: è stata la cronaca spettacolare davanti a cui buona parte del mondo si è fermata e si è sentita unita, condividendo allo stesso istante un momento di storia. Periscope unisce il mondo come potenziale continuo spettatore di se stesso. Se le pietre mliari condivise sono un retaggio del passato e ognuno nella moltitudine interconnessa può crearsi le proprie, la diretta Internet/tv di questa mattina è stata per me la chiusura simbolica ma definitiva della vecchia Internet e della vecchia tv,

    (1) omawqatsi è una espressione che ho inventato ora traducendo “vita nella nuvola” nella lingua Hopi, ispirandomi ai titoli della trilogia Qatsi di Godfrey Reggio. Se imparerò anche a pronunciarla la userò.

  • Mondo9, gli incubi biomeccanici di Dario Tonani

    Robredro Derelict At Sunset

    Urania ha pubblicato nella sua collana Millemondi Cronache di Mondo9, volume che raccoglie i romanzi del ciclo omonimo scritti da Dario Tonani a partire dal 2010.

    Non è la prima volta che due generi come fantascienza e horror si fondono ma il ciclo di Mondo9 ha alcune notevoli peculiarità. Innanzitutto è italiano e fare fantascienza in Italia significa purtroppo ancora oggi essere guardati con un vago scetticismo, un po’ come il personaggio di Ugo Tognazzi in Totò nella Luna. Prima di Urania dunque il merito va alla casa editrice indipendente 40k. che qualche anno fa cominciò a pubblicare in singoli e-book i racconti del ciclo.

    Poi Mondo9 è ascrivibile a quella nicchia della fantascienza che va sotto il nome di steampunk. le cui storie si svolgono in una sorta di ucronìa in cui la tecnologia si è evoluta sulla base dell’energia del carbone piuttosto che petrolifera o nucleare: dove nella fantascienza classica compare il circuito elettronico, il display, gli ologrammi, nello steampunk troviamo il fascino dell’ingranaggio, della ruota dentata, dello sbuffo di vapore.

    Cardanic Leaving The Robredo

    Tonani riscrive tutto questo in una chiave lovecraftiana, con l’orrore in agguato dietro una tecnologia che appare come maledetta, in cui sangue e lubrificante si mescolano in misteriose e terrificanti alchimie le cui reali dinamiche spesso sfuggono a personaggi e lettori. Lo straniamento operato dallo scrittore porta la meccanica sulla soglia della magia, della possessione demoniaca che sembra infiltrarsi tra gli ingranaggi di veicoli inspiegabilmente biomeccanici, nutriti di ruggine e resti umani. Tra infiniti percorsi di tubature, pareti d’ottone e ruote dentate si nascondono claustrofobiche nicchie, roventi e sudate, in cui trovano posto carni invase da un nefasto tocco di Mida.

    Robredo VS Afritania

    Come in un romanzo di Stephen King o di Clive Barker le macchine prendono vita, sterminando o inglobando gli umani che vorrebbero controllarle. L’ingranaggio chiede vittime sacrificali promettendo in cambio l’assimilazione, mastica indifferentemente carne e cromature, fino alla putrefazione della ruggine. L’incontro tra uomo e macchina fa nascere incubi postumani, esseri al di là del bene e del male guidati dalla logica dell’istinto.

    La sopravvivenza è l’unico vero scopo nei deserti di Mondo9, dove enormi navi solcano le sabbie mentre al loro interno, come in un dantesco girone infernale, si muovono, prigioneri e piloti al tempo stesso, esseri dagli organi cromati e dal sangue mischiato a olio, ripetendo folli monologhi che diventano assurde storiografie della mostruosità.

    (Illustrazioni di Franco Brambilla per il ciclo di Mondo9; nell’edizione di Urania sono suoi la copertina e i disegni in bianco e nero nel testo.)

  • A qualcuno piace caldo, ovvero la falsità secondo Billy Wilder

    A qualcuno piace caldo

    Billy Wilder è un regista del falso: la doppiezza e l’inganno sono gli ingredienti base di buona parte dei suoi film, da Viale del tramonto a Buddy Buddy; l’equivoco non nasce quasi mai casualmente ma è una scelta deliberata, la necessità di nascondersi, una deliberata volontà di ingannare o di mettere in scena qualcosa che in realtà non è. Wilder fa cinema sul cinema anche in questo senso, mostrando la costruzione del falso.

    In Viale del tramonto la diva decaduta vive in un eterno autoinganno, aiutata dal maggiordomo, un inganno che costituisce l’ambiente ideale per lo sceneggiatore in cerca di un nascondiglio perché perseguitato dai creditori. I protagonisti di Testimone d’accusa e L’appartamento vivono, da vittime o da creatori, una falsa realtà. Il flic di Irma La Dolce inventa un suo doppio e nella sua doppia veste mente due volte alla sua protetta e amata. In Buddy Buddy il killer vede il suo mimetismo messo a rischio dal vicino di stanza in crisi, che vive di troppa sincerità.

    A qualcuno piace caldo

    Ma è in A qualcuno piace caldo che l’intera trama dipende da un gioco continuo di scambi di menzogne. Personaggi e oggetti racchiudono una storia diversa da quella che vogliono raccontare.

    Il carro funebre è in realtà un trasporto di alcolici abusivi, nascosti nella bara; lo speakeasy è mimetizzato da funerale. Il delitto iniziale (ispirato alla strage di San Valentino), dai toni in apparenza eccessivi e troppo efferati per una commedia, spinge i due protagonisti a rinnegare il loro essere uomini e a diventare dei travestiti, mutazione derivata non da un orientamento sessuale ma dall’istinto di sopravvivenza.

    A qualcuno piace caldo

    Paradossalmente, ogni qual volta ai due protagonisti si offre un’occasione per uscire dall’inganno, ecco il verificarsi di un nuovo evento che li costringe a reindossare il loro falso ruolo o ad assumerne un altro altrettanto falso. Ma mentre Joe/Josephine/Junior entra ed esce da molteplici vite e molteplici inganni, ora per sfuggire ai criminali, ora per sedurre Zucchero, riuscendo a pentirsi della sua insensibilità e quindi a ritrovare la sua vera identità, Jerry/Daphne rimane ingenuo prigioniero del suo cammuffamento femminile, fino a divenirne vittima egli stesso e a consegnarsi a un ignoto destino nel surreale finale del film.

  • Mad Max: Fury Road – La strada furiosa di George Miller

    Mad Max: Fury Road

    Valeva la pena aspettare trent’anni per un nuovo capitolo della saga di Mad Max: dopo una lunga pausa in cui ha girato tra gli altri Le streghe di Eastwick e Happy FeetGeorge Miller ha confezionato uno dei film più belli di questi tempi.

    Mad Max: Fury Road non è un sequel o un reboot (numerosi sono gli elementi che fanno pensare a entrambe le ipotesi, tra cui il controverso destino della V8 Interceptor) ma un episodio che si colloca temporalmente al livello del secondo capitolo, Il guerriero della strada. Unico personaggio in comune è il protagonista, incarnato però da un nuovo attore, Tom Hardy, che ha preso il posto dell’ormai “anzianotto” Mel Gibson.

    Mad Max: Fury Road

    Fury Road è esattamente così come si presenta nei suoi trailer: un unico, lungo, vertiginoso inseguimento on the road che lascia pochi istanti liberi a personaggi e spettatori per riprendere il fiato. È un assalto dilatato per due ore, due ore in cui il ritmo spinge sempre come i tamburi di guerra al seguito del cattivo di turno Immortan Joe. È un film furioso come la sua protagonista, ansioso di farci dimenticare vent’anni di computer graphics, pur presente in abbondanza, con le sue performance fisiche e reali già sul set (alcuni stunt sono stati ideati insieme agli acrobati del Cirque du Soleil).

    Mad Max: Fury Road

    Se la cultura ludica di questi anni lo filtra come un videogame, Fury Road è in realtà solidamente ancorato a un secolo di tradizione cinematografica, al modello rettilineo dell’eterno inseguimento: vi si riconoscono le calibrate gag del Generale di Keaton, la diligenza di Ombre rosse di Ford, i camion nel deserto di Convoy di Peckinpah, il tir impazzito di Duel di Spielberg. Da Spielberg sembra arrivare anche il nuovo Max, che ricorda l’Indiana Jones dell’Ultima crociata, personaggio eternamente ricondotto suo malgrado al ruolo iconico che la sua fama gli ha procurato, come pure i cavalieri pallidi o senza nome di Clint Eastwood., disillusi ma disposti ad aiutare una piccola comunità a difendersi dall’ingiustizia e destinati a riprendere un vagabondaggio solitario una volta compiute le loro missioni di soccorso.

    Mad Max: Fury Road

    Velocità e montaggio divengono da caratteristiche tipiche del cinema a oggetto del film, che da mezzo si fa messaggio; i fotogrammi da soli, privati del movimento, non riescono a raccontare la storia o dare vagamente l’idea dell’essenza puramente cinetica ed esperienziale dell’opera. Le inquadrature sono quasi sempre centrali sui soggetti dell’azione, il che consente un montaggio rapido mantenendo una lettura semplice e immediata: l’occhio ne rimane catturato, fisso sul bombardamento di immagini. I quasi unici colori sono l’azzurro intenso del cielo e il giallo accecante del deserto, alternati al blu profondo di un meraviglioso effetto notte, colori che rimangono impressi e sono parte integrante e identificativa della linea estetica del film.

    Mad Max: Fury Road

    La colonna sonora di Junkie XL sfonda la barriera diegetica ed entra in scena, con percussionisti taiko su ruote gettati all’inseguimento insieme a un chitarrista (l’australiano iOTA) dagli ossessivi riff che paiono usciti dai Nine Inch Nails. Dal Requiem di Verdi al metallico industrial, tutto confluisce in un wall of sound compatto che accompagna ininterrottamente l’azione di un film reso quasi muto dalla riduzione all’osso dei dialoghi, riduzione che trasforma in citazione da cult movie ogni singola battuta.

    Mad Max: Fury Road

    Paura e desiderio lasciano il posto a follia e istinto: nessuno qui dimostra incertezze; tutto si affronta senza temere le conseguenze, perché non c’è scelta o perché la strada della furia richiede l’arma della assoluta libertà che può coincidere solo con la pazzia. Nel mondo della pura sopravvivenza la violenza è la normalità: nessuna pietà, nessun compromesso, nessuna esitazione.

    Mad Max: Fury Road

    Ballardiano fino al midollo, Fury Road canta il mondo desertificato dall’apocalisse nucleare e l’immortale mito occidentale dell’automobile; dall’auto non si scende quasi mai e tutto avviene in corsa: dialoghi, convenevoli, medicazioni delle ferite e riparazioni ai motori. Ogni pezzo di ricambio è già stato usato e riciclato innumerevoli volte fino all’estrema consunzione; i veicoli hanno perso la loro forma originale, si scompongono e si sommano come i relitti di uno sfasciacarrozze, ammucchiati e schiacciati tra loro. Si vive per la macchina e la macchina è vita, va curata come un organo umano. Le rare soste sono i rifornimenti, con taniche agganciate alle fiancate che contengono indifferentemente benzina, olio, acqua o latte materno.

    Mad Max: Fury Road

    La protagonista femminile interpretata da Charlize Theron è un cyborg, l’avambraccio perso in chissà quali sofferenze: rapita da giovane alla sua comunità, Furiosa rivendica la sua parità o addirittura il predominio grazie alla conoscenza della tecnologia, il motore, suprema e ultima espressione della civiltà di un’epoca ormai dimenticata e di cui sopravvivono solo macchine residuali e archeologiche. Al femminile è demandato il futuro, di cui Furiosa e le altre donne si fanno custodi: la conservazione della vita, filiale o sotto forma di semi della madre terra. Anche gli uomini si rendono conto del loro valore, riducendole in schiavitù; ma “noi non siamo cose” dicono le Madri, rivendicando il loro diritto al libero arbitrio e demolendo definitivamente una società patriarcale.

    Mad Max: Fury Road

    Come nei due film precedenti, Mad Max: Fury Road celebra l’apoteosi delle subculture, in un mondo in cui quello che rimane della popolazione si è frammentato in piccole comunità, ognuna con la sue gerarchie, storie e credenze, garantendo con la sua sostanziale anomìa una sorta di libera anarchia dei valori anche per il singolo. L’universo descritto racchiude una complessità ben più ampia di quella che compare in scena, sottintendendo la presenza di numerosi gruppi dispersi nei deserti postatomici, probabili ambientazioni di una nuova, folle trilogia di Miller che la fine di questo film fa desiderare come una droga.

  • Videodrome, il ciberspazio metaforico di David Cronenberg

    Videodrome

    È senza dubbio bizzarro che Videodrome di David Cronenberg risulti catalogato nelle filmografie cyberpunk; bizzarro perché, almeno in apparenza, la pellicola non affronta i temi tipici del genere. In realtà Cronenberg, con questo viaggio nell’uomo medializzato, esplora quelli che sono a tutti gli effetti gli orizzonti visionari del movimento Cyberpunk.

    Non ci sono reti informatiche da esplorare alla caccia di dati: Videodrome è calato nel suo presente (i primi anni ’80) in cui la Rete è solo un embrione telematico accessibile a pochi (Cronenberg se ne occuperà molto più in là, con il metaverso ludico di eXistenZ). L’infospazio è quello analogico della televisione: ad avviare l’allucinato viaggio del protagonista Max Renn è sì un hacker ma della programmazione televisiva; dopo tutto, ogni sistema, di qualsiasi natura sia, è un oggetto da esplorare nelle sue componenti nascoste o inaccessibili. E’ così che un giorno l’amico hacker Harlan intercetta una trasmissione satellitare, appunto Videodrome.

    Videodrome

    Se l’interfaccia di accesso è il tubo catodico, il supporto è la videocassetta. Ma il dato inciso sul nastro magnetico è, ancorché analogico, addirittura biologico e apparentemente dotato di vita. Il testamento del professor O’Blivion, predicatore dell’etere, è un lunghissimo videotape che occupa un’intera stanza della Cathode Ray Mission, sorta di istituto di assistenza per indigenti che consente a chi non ne ha la possibilità di guardare la televisione e sentirsi così parte della “grande tavolozza del mondo”. Ma O’Blivion-videotape non è una memoria statica, bensì un essere vivente in grado di dialogare con chi lo guarda, un costrutto postumano che sposta la sede della coscienza in uno spazio mediale.

    Videodrome

    Lo spazio mediale è a sua volta l’arena Videodrome: un luogo definito dalla televisione e da chi lo guarda, estrema “allucinazione consensuale”, per usare la definizione del cyberspace di Gibson, che consente l’incontro tra spettatori e protagonisti del programma, al contempo annullando la distinzione tra attori e pubblico: chi guarda Videodrome ne diventa suo malgrado parte. Non solo: la stessa realtà diviene indistinguibile dall’allucinazione; lo schermo si incurva verso l’esterno e lo spettatore lo penetra fisicamente; nella società dello spettacolo scompare ogni separazione tra scena e platea.

    Videodrome

    Lo strumento per registrare l’esperienza Videodrome ricorda un casco da realtà virtuale: una macchina concepita per far vedere qualcosa all’utente diventa un dispositivo per vedere quello che l’utente sente e prova. Ma l’esperienza porta all’effettiva proiezione su una realtà tutt’altro che virtuale; se il ciberspazio altro non è che una rappresentazione metaforica di dati, la realtà che esso rappresenta viene modificata dall’interazione con quei dati. Se realtà e allucinazione non sono più distinguibili, l’allucinazione assume lo stesso valore (e gli stessi effetti) della realtà.

    Videodrome

    La videocassetta vivente è il supporto delle informazioni che riprogrammano l’uomo-video. Sotto l’influsso del tumore Videodrome, incarnazione biologica del segnale, origine e risultato allo stesso tempo, il fisico si trasforma, diviene contenitore di dati, si fonde con l’arma che diventa a sua volta carne. Il corpo umano, metafora di quello sociale, diviene terreno di scontro e oggetto del desiderio di forze disincarnate, corporazioni, chiese, ognuna tesa alla conquista e all’autoaffermazione. Max Renn passa da addetto ai lavori, proprietario di un canale tv, a inerme oggetto di riprogrammazione per oscuri fini, macchina assassina che uccide indifferentemente, nel sogno o nella realtà, umani e televisori di carne.

    Videodrome

    Il destino di Max è segnato, come quello di tutti i protagonisti dei film di Cronenberg che osano violare i confini dell’imperscrutabile per oltrepassare se stessi: il postumano è distruttivo e la mutazione si rivela sempre, ineluttabilmente, letale.

  • Oltre il Cyberpunk: le architetture postumane di Tsutomu Nihei

    Blame

    Tsutomu Nihei è un mangaka che mette a dura prova la lettura da parte degli otaku più accaniti. La storia del suo Blame! appare all’inizio incredibilmente complessa e fumosa; in realtà la si scopre poi essere quasi inesistente: si tratta solo di un espediente per trascinare il lettore attraverso duemila pagine di immagini, con pochi e per lo più misteriosi dialoghi. Ciò che affascina non è lo svolgersi di una trama bensì l’accumulo di ambienti e situazioni sempre nuove e sorprendenti. Il mondo di Blame! è il prodotto di innumerevoli mutazioni: la società si è frammentata lungo i piani di una megalopoli stratificata, che sale da profondi abissi di acciaio e cemento verso altissime torri che si perdono tra le nuvole; ogni volta che crediamo di aver raggiunto la cima scopriamo, come in una specie di arcade, di aver solo superato un livello e che un altro ci attende.

    Gli occupanti di questo specie di labirinto di Escher sono i rappresentanti di una nuova specie di umanità o forse solo una sua breve appendice sulla percorso che porta all’estinzione. Ci sono piccole comunità regredite a un livello medievale mentre altre appaiono ancora vivere immerse in un’alta tecnologia, anche se di recupero. Individui isolati sopravvivono in modi imprecisati, a volte prigionieri di macchine che perpetuano all’infinito le loro funzioni ormai prive di scopo, come la donna mantenuta in vita da un dispositivo di inseminazione che la costringe al contempo a partorire all’infinito. Tutto è riciclato o riadattato, nulla di nuovo si scopre o si produce ma si vive del residuo. Non vi è neppure spazio per aspirazioni umane: l’agire è motivato solo dalla sopravvivenza e dall’adempiere a missioni di origine remota che potrebbero essere ormai inutili. L’interazione sociale è ridotta al minimo indispensabile, semplice scambio di indicazioni e informazioni pratiche, se non velate minacce o aperte dichiarazioni di ostilità: un oltre vita che pare uscito dal trittico di Bosch senza alcun accenno però a un paradiso.

    Blame

    Ogni distinzione tra umano e macchina sembra impossibile: chiunque può rivelarsi indifferentemente composto di carne o metallo, biologico o elettronico; il confine tra naturale e artificiale è caduto e ha perduto ogni senso. Anche la stessa corporeità viene superata da esseri mutaforma e da rappresentazioni olografiche viventi.

    Tutta questa postumanità scompare di fronte alle architetture gigantesche che dominano le tavole, vero oggetto della rappresentazione di Nihei: quello di Blame! è un panorama interamente artificiale, dove ogni spazio disponibile è edificato, composto esclusivamente da immensi blocchi di cemento, tubi, macchinari in cui si aprono finestre, scale, condotti, enormi caverne o stretti cunicoli. Se protagonisti e comparse difettano di profondità e di uno spessore psicologico (non conosciamo praticamente nulla della loro vita e spesso rimaniamo indifferenti di fronte all’improvvisa apparizione di nuovi personaggi e alla loro altrettanto repentina e a volte inspiegabile scomparsa) è anche perché questi vengono costantemente schiacciati dalla sovrabbondanza edilizia: la vita umana è solo un residuo biologico dei suoi prodotti fuori controllo.

    Blame

    In Biomega, prequel di Blame! con cui in realtà condivide ben poco, vediamo una possibile nascita di questo nuovo mondo, dovuta apparentemente alla comparsa di un misterioso virus che trasforma gli uomini in una sorta di zombi mutanti in grado di fondersi tra loro e con gli edifici, causando la crescita incontrollata di biocittà di carne e roccia, fino a una catastrofe globale che coinvolge l’intero pianeta, deformandolo in una costruzione spaziale che si estende forse per milioni di chilometri.

    Biomega

    Gli ultimi residui di grandi zaibatsu tentano di riprendere il controllo prima della loro stessa dissoluzione; ma ogni tentativo pare destinato al fallimento di fronte all’ineluttabilità del destino e al predominio della materia.

    Il gigantismo delle strutture trionfa su tutto, come morte o neo-vita, monumento ed epitaffio dell’uomo: nulla sopravvive se non l’eterna mutazione e decadenza dell’architettura, non più ricerca ma pura autoriproduzione: come la Terra finale del ciclo di Anni senza fine di Simak, il mondo di Nihei è solo una gigantesca costruzione senza più scopo alcuno, condannata a perpetuarsi fino alla consunzione.

  • Tetsuo, l’arma umana di Shinya Tsukamoto

    Tetsuo

    (Altro riciclo di vent’anni fa dalla rivista Betarelease)

    Un uomo si addentra di nascosto in una vecchia officina cadente. Cumuli di spazzatura metallica lo circondano. L’uomo prende un tubo zigrinato e se lo spinge a forza dentro una ferita aperta nella gamba. L’uomo urla. La ferita si riempie di vermi che divorano carne e metallo.

    E’ questo l’inizio di Tetsuo, film indipendente a bassissimo costo del regista giapponese Shinya Tsukamoto.

    In Tetsuo e nel suo sequel/remake Tetsuo II: Body Hammer due uomini si trovano ad affrontare l’inesorabile metamorfosi del proprio corpo. Improvvisamente, del metallo comincia a emergere da sotto la pelle; il corpo assorbe in maniera inscindibile altro metallo dall’esterno. I due diventano degli uomini-macchina, capaci di sparare micidiali proiettili dalle braccia e di sfrecciare a velocità incredibili.

    Tetsuo

    Nei due film troviamo molte delle paure della fine di questo millennio: l’oppressione tecnologica, la mutazione genetica, la claustrofobia del monolocale nel grattacielo, la perdita dell’identità individuale. L’ossessionante tecnologia che ci circonda si fonde e si integra con la biologia. La morte dell’uomo macchina è la corrosione e per evitarla non gli resta altro che inglobare sempre nuovo materiale.

    Il cambiamento non è solo fisico ma anche mentale. Piano piano si fa strada il richiamo a una missione da adempiere, o forse la consapevolezza di una volontà: il metallo si assomma ad altro metallo, la carne ad altra carne; e il multi-uomo-macchina finale è pronto a marciare sul mondo per trasformarlo in una massa di acciaio.

    Se il corpo si trasforma, altrettanto fanno i sensi. Lo sguardo, l’udito ma anche la memoria si fanno elettronici e la loro rappresentazione è una vera e propria estetica del disturbo. Così la voce è un cavernoso rimbombo, l’orecchio trasmette schianti metallici al cervello trasformato in circuiti di fil di ferro. Il flashback cinematografico dell’uomo-macchina è un monitor pieno di interferenze, di neve elettronica attraverso cui i ricordi appaiono distorti, accelerati, riavvolti. La memoria è una cassetta inserita in un videoregistratore guasto.

    Tetsuo II

    Entrambi i film sono ricchi di sequenze frenetiche al limite del subliminale: in pochi decimi di secondo vengono condensate decine di situazioni diverse, punti di vista opposti, visioni del corpo dall’interno e dall’esterno. Il disturbo elettronico si traduce nel nostro cervello in un continuo sovraccarico di impulsi che stordiscono e disorientano. I colori sottolineano la mutazione: in Tetsuo, in bianco e nero, la fusione ha i toni dei livelli di grigio. Al contrario, i colori di Tetsuo II distanziano la carne, calda e rossa, dal metallo, freddo e blu.

    Ai due Tetsuo corrispondono due diverse visioni della città. Nel primo film vediamo un insieme di case basse, piccole fabbriche in rovina, cumuli di rifiuti industriali abbandonati: un tessuto urbano post-industriale in decomposizione ma pur sempre originariamente pensato e costruito a misura d’uomo. La metamorfosi del corpo dell’uomo-macchina diventa parte del disfacimento del corpo-città, una struttura costretta a soccombere alla propria entropia: come nell’Europa dopo la pioggia di Max Ernst, architetture ed esseri viventi diventano indistinti e confusi, collassando in una sostanza unica e imprecisata.

    In Tetsuo II la città è gigantesca, asettica, immutabile, perfetta e disumana, corpo alieno tanto alla carne quanto al metallo: grattacieli di cui non si riesce a vedere la fine, rilucenti ipermercati della civiltà dei consumi, metropolitane dove tutto può accadere nell’indifferenza più totale di imperturbabili viaggiatori. Ma tra quei grattacieli Shinya Tsukamoto è nato e cresciuto e, pur trasmettendo una ossessione claustrofobica per la mega-città di cemento, la rappresenta comunque con colori tenui, prevalentemente sfumature azzurre che la immergono in una atmosfera irreale.

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