Categoria: Libri

  • Cronache marziane: la colonizzazione secondo Ray Bradbury

    Cronache marziane: la colonizzazione secondo Ray Bradbury

    Settant’anni fa veniva pubblicato per la prima volta in Italia Cronache marziane di Ray Bradbury, una raccolta di racconti riuniti in un romanzo che illustrava una ipotetica colonizzazione di Marte e il suo successivo repentino abbandono da parte dei terrestri,

    Cronache marziane viene generalmente indicato come opera di fantascienza, ma la classificazione gli va stretta e risulta almeno in parte errata, Se infatti la fantascienza è riflessione sul futuro come conseguenza possibile del presente, questo testo non può rientrare nella definizione. Cronache marziane è una metafora della storia degli Stati Uniti d’America, precisamente della loro colonizzazione da parte degli europei e dello sterminio dei nativi.

    Bradbury poi ignora volutamente il lato tecnologico e scientifico tipico del genere, tralascia verosimiglianza e credibilità per concentrarsi sulla poesia del racconto, in una scrittura lirica, elegante e ricercata. Le astronavi degli invasori non vengono minimamente descritte, mentre le delicate città marziane sono fragili architetture dell’irrazionale che costituiscono una gigantesca ed effimera cristalleria.

    I marziani non hanno forma definita, anzi la perdono confondendosi nella mente dei terrestri con le loro capacità telepatiche fino a incarnare il sogno di ritrovare amici e parenti perduti. L’alieno incarna non un insondabile se stesso ma una speranza perduta, la nostalgia di un passato perduto, come accadrà qualche anno più tardi in un altro grande classico letterario fuori dagli schemi, Solaris di Stanislaw Lem.

    L’avanzatissima, ma non tecnologica, civiltà marziana viene spazzata via, prima ancora che dalla distruzione fisica dei nuovi venuti, dai germi che questi portano con sé, come accaduto del resto a molte popolazioni dell’antica America. Al confronto della raffinata e poetica civiltà marziana, quella terrestre si rivela rozza e barbara, priva di grazia o rispetto. Non è il progresso quindi che migliora una civiltà ma lo scopo che essa persegue.

    L’unica apertura verso il canone fantascientifico è l’autodistruzione dei terrestri in una guerra nucleare che devasta il loro pianeta natio; ma anche questa viene descritta in modo tutt’altro che scientifico (“la Terra sembrò incendiarsi”).

    La conclusione è speranzosa ma pessimista al tempo stesso: dopo che i terrestri hanno abbandonato nel disinteresse il nuovo mondo, i “veri” marziani sono gli ultimi coloni fuggiti alla devastazione atomica della Terra, al tempo stesso un modo per immaginarsi diversi e più in sintonia con la natura di un pianeta alieno ma anche per sancire la scomparsa definitiva del popolo che lo abitava di diritto.

  • Mondo9, gli incubi biomeccanici di Dario Tonani

    Robredro Derelict At Sunset

    Urania ha pubblicato nella sua collana Millemondi Cronache di Mondo9, volume che raccoglie i romanzi del ciclo omonimo scritti da Dario Tonani a partire dal 2010.

    Non è la prima volta che due generi come fantascienza e horror si fondono ma il ciclo di Mondo9 ha alcune notevoli peculiarità. Innanzitutto è italiano e fare fantascienza in Italia significa purtroppo ancora oggi essere guardati con un vago scetticismo, un po’ come il personaggio di Ugo Tognazzi in Totò nella Luna. Prima di Urania dunque il merito va alla casa editrice indipendente 40k. che qualche anno fa cominciò a pubblicare in singoli e-book i racconti del ciclo.

    Poi Mondo9 è ascrivibile a quella nicchia della fantascienza che va sotto il nome di steampunk. le cui storie si svolgono in una sorta di ucronìa in cui la tecnologia si è evoluta sulla base dell’energia del carbone piuttosto che petrolifera o nucleare: dove nella fantascienza classica compare il circuito elettronico, il display, gli ologrammi, nello steampunk troviamo il fascino dell’ingranaggio, della ruota dentata, dello sbuffo di vapore.

    Cardanic Leaving The Robredo

    Tonani riscrive tutto questo in una chiave lovecraftiana, con l’orrore in agguato dietro una tecnologia che appare come maledetta, in cui sangue e lubrificante si mescolano in misteriose e terrificanti alchimie le cui reali dinamiche spesso sfuggono a personaggi e lettori. Lo straniamento operato dallo scrittore porta la meccanica sulla soglia della magia, della possessione demoniaca che sembra infiltrarsi tra gli ingranaggi di veicoli inspiegabilmente biomeccanici, nutriti di ruggine e resti umani. Tra infiniti percorsi di tubature, pareti d’ottone e ruote dentate si nascondono claustrofobiche nicchie, roventi e sudate, in cui trovano posto carni invase da un nefasto tocco di Mida.

    Robredo VS Afritania

    Come in un romanzo di Stephen King o di Clive Barker le macchine prendono vita, sterminando o inglobando gli umani che vorrebbero controllarle. L’ingranaggio chiede vittime sacrificali promettendo in cambio l’assimilazione, mastica indifferentemente carne e cromature, fino alla putrefazione della ruggine. L’incontro tra uomo e macchina fa nascere incubi postumani, esseri al di là del bene e del male guidati dalla logica dell’istinto.

    La sopravvivenza è l’unico vero scopo nei deserti di Mondo9, dove enormi navi solcano le sabbie mentre al loro interno, come in un dantesco girone infernale, si muovono, prigioneri e piloti al tempo stesso, esseri dagli organi cromati e dal sangue mischiato a olio, ripetendo folli monologhi che diventano assurde storiografie della mostruosità.

    (Illustrazioni di Franco Brambilla per il ciclo di Mondo9; nell’edizione di Urania sono suoi la copertina e i disegni in bianco e nero nel testo.)

  • Oltre il Cyberpunk: le architetture postumane di Tsutomu Nihei

    Blame

    Tsutomu Nihei è un mangaka che mette a dura prova la lettura da parte degli otaku più accaniti. La storia del suo Blame! appare all’inizio incredibilmente complessa e fumosa; in realtà la si scopre poi essere quasi inesistente: si tratta solo di un espediente per trascinare il lettore attraverso duemila pagine di immagini, con pochi e per lo più misteriosi dialoghi. Ciò che affascina non è lo svolgersi di una trama bensì l’accumulo di ambienti e situazioni sempre nuove e sorprendenti. Il mondo di Blame! è il prodotto di innumerevoli mutazioni: la società si è frammentata lungo i piani di una megalopoli stratificata, che sale da profondi abissi di acciaio e cemento verso altissime torri che si perdono tra le nuvole; ogni volta che crediamo di aver raggiunto la cima scopriamo, come in una specie di arcade, di aver solo superato un livello e che un altro ci attende.

    Gli occupanti di questo specie di labirinto di Escher sono i rappresentanti di una nuova specie di umanità o forse solo una sua breve appendice sulla percorso che porta all’estinzione. Ci sono piccole comunità regredite a un livello medievale mentre altre appaiono ancora vivere immerse in un’alta tecnologia, anche se di recupero. Individui isolati sopravvivono in modi imprecisati, a volte prigionieri di macchine che perpetuano all’infinito le loro funzioni ormai prive di scopo, come la donna mantenuta in vita da un dispositivo di inseminazione che la costringe al contempo a partorire all’infinito. Tutto è riciclato o riadattato, nulla di nuovo si scopre o si produce ma si vive del residuo. Non vi è neppure spazio per aspirazioni umane: l’agire è motivato solo dalla sopravvivenza e dall’adempiere a missioni di origine remota che potrebbero essere ormai inutili. L’interazione sociale è ridotta al minimo indispensabile, semplice scambio di indicazioni e informazioni pratiche, se non velate minacce o aperte dichiarazioni di ostilità: un oltre vita che pare uscito dal trittico di Bosch senza alcun accenno però a un paradiso.

    Blame

    Ogni distinzione tra umano e macchina sembra impossibile: chiunque può rivelarsi indifferentemente composto di carne o metallo, biologico o elettronico; il confine tra naturale e artificiale è caduto e ha perduto ogni senso. Anche la stessa corporeità viene superata da esseri mutaforma e da rappresentazioni olografiche viventi.

    Tutta questa postumanità scompare di fronte alle architetture gigantesche che dominano le tavole, vero oggetto della rappresentazione di Nihei: quello di Blame! è un panorama interamente artificiale, dove ogni spazio disponibile è edificato, composto esclusivamente da immensi blocchi di cemento, tubi, macchinari in cui si aprono finestre, scale, condotti, enormi caverne o stretti cunicoli. Se protagonisti e comparse difettano di profondità e di uno spessore psicologico (non conosciamo praticamente nulla della loro vita e spesso rimaniamo indifferenti di fronte all’improvvisa apparizione di nuovi personaggi e alla loro altrettanto repentina e a volte inspiegabile scomparsa) è anche perché questi vengono costantemente schiacciati dalla sovrabbondanza edilizia: la vita umana è solo un residuo biologico dei suoi prodotti fuori controllo.

    Blame

    In Biomega, prequel di Blame! con cui in realtà condivide ben poco, vediamo una possibile nascita di questo nuovo mondo, dovuta apparentemente alla comparsa di un misterioso virus che trasforma gli uomini in una sorta di zombi mutanti in grado di fondersi tra loro e con gli edifici, causando la crescita incontrollata di biocittà di carne e roccia, fino a una catastrofe globale che coinvolge l’intero pianeta, deformandolo in una costruzione spaziale che si estende forse per milioni di chilometri.

    Biomega

    Gli ultimi residui di grandi zaibatsu tentano di riprendere il controllo prima della loro stessa dissoluzione; ma ogni tentativo pare destinato al fallimento di fronte all’ineluttabilità del destino e al predominio della materia.

    Il gigantismo delle strutture trionfa su tutto, come morte o neo-vita, monumento ed epitaffio dell’uomo: nulla sopravvive se non l’eterna mutazione e decadenza dell’architettura, non più ricerca ma pura autoriproduzione: come la Terra finale del ciclo di Anni senza fine di Simak, il mondo di Nihei è solo una gigantesca costruzione senza più scopo alcuno, condannata a perpetuarsi fino alla consunzione.

  • Memorie di un dischivendolo

    Disco Club

    Tutto ebbe inizio tra dischi volanti, cicogne e un concerto di Stan Getz.

    Giancarlo Balduzzi è un tossicomane di lungo corso. Di più: è un tossicomane passato dal consumo allo spaccio. Spaccia ormai da quasi trent’anni a buona parte degli abitanti di Genova. Prima lavorava in banca, il che almeno in parte spiega perché si sia dato a un tal commercio. Potete star tranquilli con lui, è fidato: spaccia praticamente solo roba che conosce bene e che gli piace. Se non ha qualcosa è perché si tratta di roba schifosa che fareste meglio a non comprare; anzi, fareste bene a non chiedergliela nemmeno, dato che la cosa potrebbe valervi un’espulsione.

    I suoi clienti sono ovviamente affetti dalla medesima dipendenza e si fidano ciecamente dei suoi consigli, anche se ogni tanto scoppiano vive discussioni del genere “è meglio questo!”, “no, questo!”. Ma si tratta di diatribe tra amici, che solo raramente sfociano nella rissa aperta.

    Se cercate roba comune, quella che hanno tutti, non andate da lui, perché non ce l’ha. Del resto, quelli che la tenevano hanno chiuso bottega uno dopo l’altro, mentre lui prospera. Anzi, assume i dipendenti della ex concorrenza.

    Ieri c’è stato l’incontro con l’alieno, oggi con Dracula.

    I suoi assidui frequentatori sono a volte davvero bizzarri, con strane fisse e manie, comportamenti al limite della psicopatologia; ognuno ha i suoi gusti, ma nessuno mette in dubbio quelli di Gian, non a lungo, almeno, e non senza poi ammetttersi di essersi sbagliati. Quando gli arriva un pacco di roba nuova li trovate tutti lì a frugare cercando il meglio o la curiosità. Naturalmente Gian è la disperazione di genitori e coniugi dei suoi migliori clienti, dato i danni al bilancio familiare causati dalla tossicomania. A ogni modo la roba che vende Gian, oltre a essere legale, è tra la più sana disponibile: non crea danni alla salute, nemmeno quelli da fumo passivo. Al limite alle orecchie, ma quello dipende dal volume che ognuno preferisce, e quelli, si sa, son gusti.

    Perché Gian spaccia dischi: cd, vinili, nuovi, usati, rock, blues, jazz, indie, non importa, purché sia buona musica. Solo sotto Natale fa qualche rara eccezione, concessioni magnanime ai primitivi gusti del volgo, perché il mercato è quello che è ma soprattutto perché a Natale sono tutti più buoni e quindi anche lui. Se in vetrina compare un disco troppo commerciale, ovvero qualcosa conosciuto a più dello 0,2% della popolazione, subito i suoi clienti si preoccupano e si chiedono se sia stia male o se addirittura non sia improvvisamente deceduto.

    Rispunta in negozio Quasimodo, non lo vedevo da mesi. Il padre ci ha proibito di vendergli ancora dei dischi…

    Il suo negozio, Disco Club, è una vera e propria istituzione a Genova, visitato e quindi benedetto anche da Nick Hornby. Tra poco farà cinquant’anni (il negozio, non Hornby), che non sono pochi, soprattutto considerando la crisi e i cambiamenti del mercato musicale, che negli anni hanno visto chiudere tanti negozi. Quando lì vicino aveva aperto la Fnac, qualcuno aveva chiesto a Gian “e ora come farai?”. Gian ha semplicemente aspettato. La Fnac ha chiuso e due dei suoi dipendenti ora lavorano a Disco Club.

    Da qualche tempo Gian tiene un diario su Facebook, dove ogni sera annota meticolosamente gli avvenimenti della giornata. Il primo anno del diario è diventato da poco un libro autoprodotto, un successo editoriale che ha venduto centinaia di copie in meno di tre mesi. Nel diario compare tutta quella misteriosa (e un po’ preoccupante) fauna umana che frequenta il nogozio di Gian, una carrellata di personaggi a volte inquietanti, a volte grotteschi, ma mai ridotti a macchiette. Far parte di questa corte dei miracoli è un privilegio; essere citati nel diario addirittura un onore.

    Quello svolto da Disco Club è un servizio sociale e culturale, di educazione e diffusione del sapere: i giovani che entrano nel negozio ne escono cambiati: giungono in cerca di un disco dell’ultima star di un talent show della tv e se ne vanno con Led Zeppelin, John Coltrane, King Crimson. Il diario è una testimonianza anche di questo servizio: Gian raccoglie gente per salvarla dalla barbarie musicale, dalla becerità di un mercato che si fa ogni giorno più misero e ignorante. E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo.

  • “Non per odio ma per amore”: gli “Orfani” della Sergio Bonelli

    Orfani

    Sono colpevole: da tempo immemore ormai non frequentavo la scuderia Bonelli, dopo essere stato per più di dieci anni un accanito fan di Dylan Dog dalle sue origini e successivamente aver soltanto dato uno sguardo distratto qua e là a successive creazioni come Nathan Never e Gea. Nel frattempo Sergio Bonelli se n’èandato e il mondo nato con Tex è fortunatamente arrivato indenne alla sua terza generazione. Su segnalazione del buon Giovanni Boccia Artieri ho scoperto Orfani con cui sto piacevolmente espiando le mie colpe.

    Da quasi un anno in edicola, Orfani è il primo albo del nuovo corso bonelliano, che prevede tra l’altro il rilancio di Dylan Dog in versione rivisitata, con ricambio di personaggi, stili e tematiche.

    Che Orfani sia una svolta per la Bonelli si vede sin dai primi numeri: un diverso segno grafico, per di più completamente a colori, il passaggio da episodi autoconclusivi a serie annuali (per il momento ne sono previste almeno due), un linguaggio più attuale, mutuato dal cinema, il tutto unito a una violenza inusuale per la casa editrice milanese.

    Orfani

    L’ambientazione è post-apocalittica, dopo che una catastrofe planetaria, un’immensa luce che ha travolto e distrutto buona parte dell’Europa, ha precipitato l’umanità in un’epoca oscura. Il mondo futuro è quello cupo di film come Terminator o Appleseed, costellato da macerie, mancanza di ordine, spietate persecuzioni e ribellioni. Ambienti e tecnologie macinano gli ultimi trent’anni di immaginario cinematografico, fumettistico e videoludico americano e giapponese, con citazioni continue, dai bambini-cavie di Akira di Katsuhiro Otomo ai marine ipertecnologici di Aliens di James Cameron. La grafica spettacolare trasforma gli ambienti in monocolori accesi, ora rossi, ora blu, con il freddo dello spazio e delle città in rovina che si contrappone al calore delle armi e degli amori.

    Orfani

    La storia scritta da Roberto Recchioni si svolge su due livelli temporali, seguendo l’evoluzione dei personaggi da bambini superstiti del disastro, orfani appunto, e contemporaneamente da adulti trasformati in macchine da guerra, attraverso uno spaventoso addestramento militare e le successive missioni.

    I dialoghi sono serrati, senza battute superflue, come se non ci fosse spazio per altro, con punte di cinico umorismo che si contrappongono alla freddezza degli ordini.

    Orfani

    I protagonisti, il cui folto numero all’inizio può disorientare, vengono via via falcidiati in un crudele gioco a eliminazione alla dieci piccoli indiani, in cui i personaggi scompaiono uno dopo l’altro, quasi mai per mano nemica quanto piuttosto per i severi allenamenti e i sempre più accesi scontri interni tra eroi che si trasformano da amici in rivali. Sì, perché tra i tanti dubbi che Orfani insinua il più tremendo è la scelta sulle parti da prendere: immersi nella liquidità postmoderna, senza indirizzo o fonti di informazioni affidabili, i “piccoli e spaventati guerrieri” si trovano spesso a dover decidere con chi schierarsi, a stabilire dove stiano il bene e il male, abbandonati nella guida e negli affetti, avendo come unici strumenti di discrimine se stessi e la propria coscienza.

    Orfani

    I confini dei sentimenti, lealtà, amicizia, amore, vacillano e si sfaldano di continuo, in un gruppo in cui prevalgono di volta in volta la scelta individuale, la fedeltà a un’istituzione o a un’ideale; ognuno segue una propria idea di verità, faticosamente costruita in un’infanzia di orrore e di duro addestramento oltre i limiti dell’umano, che costringe menti e corpi a una continua, dolorosa e a volte letale mutazione.

    Il lettore, travolto dai continui cambi di campo dei singoli personaggi, si trova a dover scegliere a sua volta da che parte stare; in Orfani non vengono proposte chiare e definitive distinzioni tra buoni o cattivi: siamo noi a decidere quali siano gli eroi e quali le canaglie e spesso un improvviso ribaltamento ci costringe a rivedere le nostre posizioni; sembra sempre esserci un’accusa, un errore e parimenti una scusa e una giustificazione per tutti. Ognuno opera a modo suo per la salvezza dell’umanità, anche attraverso l’annientamento altrui o la propria autodistruzione; nonostante il desiderio di vendetta imperi, in genere è l’amore, e non l’odio, a guidare le loro azioni.

    La pubblicazione è stata preceduta, altro fatto inedito per la Bonelli, dalla pubblicazione di un numero zero, una raccolta di illustrazioni scaricabile on line in formato Pdf che potete trovare sul sito ufficiale. Il resto, vivamente consigliato, in edicola o come arretrati.

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