Categoria: TV

  • La verifica incerta, ovvero l’attualità di Videodrome

    La verifica incerta, ovvero l’attualità di Videodrome

    Si tende spesso a giudicare “profetica” un’opera che ha anticipato temi, problemi o eventi. In realtà, la riflessione sul presente e sulle possibili consguenze future ha ben poco di profetico: come in una partita a scacchi, si pensa alle mille possibili svolte portate dalle nostre azioni e ai loro effetti.

    In questo, Videodrome, film di esattamente quarant’anni fa, manifesto delle ossessioni del canadese David Cronenberg, non ha sbagliato una mossa. Pur restando saldamente all’interno del brainframe televisivo, Cronenberg ha esplorato, tra gli altri temi, la perdita della capacità di distinguere tra vero e falso, tra realtà e finzione.

    La medializzazione della società porta all’inevitabile perdita di controllo diretto, e quindi di verifica, sul nostro mondo elettronicamente allargato, al cui interno si verificano eventi al di fuori della nostra diretta portata. Il protagonista di Videodrome si trova di colpo a viver in un mondo in cui allucinazione, ricordi, realtà e percezione si confondono al punto da risultare indistinguibili. L’unico discrimine sembra poter essere quello dell’evidente assurdità e improbabilità di ciò che appare accadere, ma anche questa certezza sembra priva di fondamento in un mondo in cui quasi tutto subisce un’accelerazione verso l’eccesso e il paradosso, in cui qualunque evento, per quanto assurdo ci possa sembrare, suona comunque come verosimile. Tutto ciò che sembrava impossibile appare oggi come una probilità, sia per l’avanzamento tecnologico, sia per la degenerazione del comportamento sociale o del linguaggio politico.

    La scelta di una realtà, nel senso di accettare ciò che può essere reale, diventa per alcuni una questione di credo personale, come un atto di fede; allarmante deriva che porta a un preoccupante relativismo più che a una indipendenza di pensiero, ad abbracciare una spiegazione qualunque che non a sviluppare le abilità necessarie per sceglierne consciamente una in particolare.

    Cronenberg spingeva questo all’eccesso anche nella materia: l’allucinazione è parte di noi e modifica a livello fisico il nostro corpo (nella metafora, la società), rendendoci capaci (o incapaci?) di atti in apparenza folli ma perfettamente logici in un ambiente informativamente privo di coerenza, in cui l’assurdo può essere vero perché ciò che sembrava assurdo si è già dimostrato vero.

  • Fenomenologia del tenente Colombo

    Fenomenologia del tenente Colombo

    Circa cinquant’anni fa esordiva sugli schermi televisivi la serie Colombo, con protagonista Peter Falk nei panni dell’omonimo tenente. Il format era innovativo: benché incardinata nei solidi meccanismi del giallo poliziesco, la trama era caratterizzata da una originale idea, che ribaltava lo schema del genere: il pubblico doveva sapere fin dall’inizio chi era l’assassino; l’interesse per la storia scaturiva dalle indagini del tenente che, pezzo dopo pezzo, metteva insieme il complesso puzzle di alibi, indizi e prove.

    Si assisteva a una serie di sopralluoghi, colloqui e interrogatori con l’assassino, quasi sempre appartenente all’alta società, rappresentante del mondo della moda, dello spettacolo, dell’industria, e i suoi diretti conoscenti e colleghi di lavoro, in cui un deferente Colombo pareva indugiare incerto sui passi da compiere, fino a che non dimostrava lo smascheramento del colpevole proprio all’assassino.

    La figura del tenente è un piccolo prodigio di caratterizzazione, dovuto sia alla qualità della sceneggiatura sia alla magistrale interpretazione di Peter Falk.

    Povero italo-americano in un mondo di ricchi wasp, Colombo conduce una inconsapevole vendetta di classe: il tenente è un Fantozzi a una cena padronale; è malvestito in confronto a un mondo alla moda, l’eterno impermeabile sporco e spiegazzato come pressoché unico costume, la vecchia utilitaria, una Peugeot 403, stona di fronte alle auto di lusso del mondo in cui si muove.

    Il tenente non sa come comportarsi nell’alta società; il suo cibo preferito è il popolare chili e l’alta cucina lo sorprende e lo meraviglia; è imbarazzato, impacciato e ossequioso; sempre attento a non disturbare, timido nelle movenze come se un suo gesto sgraziato possa rompere qualche delicata opera d’arte, introduce l’interrogatorio con un deferente “mi perdoni se la disturbo, lei ha così tanto da fare” e lo conclude con un altrettanto deferente “mi scusi, non la importunerò più”, promessa regolarmente disattesa. Colombo, perenne vincitore, appartiene al proletariato; l’assassino, sempre sconfitto, al mondo dei ricchi.

    Le sue vittorie non portano avanzamenti di carriera, né lui sembra desiderarli. Al contrario dei suoi indagati, non ha ambizioni o mire, è pago di ciò che ha: la famiglia, il lavoro, il cane.

    Lo spettatore conosce già il modus operandi del tenente, al contrario dell’assassino di turno. Colombo è un indagatore seriale per definizione, l’assassino è sempre occasionale, ignora lo stile del suo avversario che è invece ben noto a noi che lo seguiamo puntata per puntata. Nel gioco delle parti ribaltate, l’assassino diventa la vittima di un serial killer.

    L’atteggiamento del tenente Colombo è cordiale, simpatico, eppure falsamente sincero: egli sa già che cosa ha scoperto ma lo dice solo alla fine della conversazione, con un puntuale “Ah, ancora una cosa…”. Il dettaglio importante, il cuore rivelatore, la prova definitiva vengono lasciati cadere addosso all’indagato a tradimento, quando un difficile interrogatorio mascherato da amichevole colloquio sembra ormai brillantemente superato: “Sì, dev’essere sicuramente come dice lei, eppure c’è una cosa che non riesco a spiegarmi…”.

    Colombo come un piraña assaggia la sua vittima e poi la divora inesorabile fino all’osso. Il suo linguaggio del corpo esprime aggressività mascherata: la schiena si incurva, la testa si inclina minacciosamente verso il bersaglio, gli occhi piccoli e svegli scrutano costantemente. La nostra sadica soddisfazione deriva dalla ripetizione dei colpi segreti del tenente, dalla sua attenzione per i dettagli apparentemente insignificanti e alla sua capacità di trovarne i collegamenti. Attendiamo il suo attacco finale alla conclusione della puntata mentre vediamo l’assassino dibattersi come la preda di un ragno, imprigionandosi sempre più nella tela.

    Sotto le mentite spoglie di un cordiale simpaticone, Colombo si rivela essere un freddo indagatore, un predatore naturale che non prova alcun desiderio di vendetta, forse nemmeno di giustizia, ed è forse quasi dispiaciuto quando riesce a incastrare la sua vittima. Non è un vendicatore ma un glaciale esecutore del meccanismo della giustizia.

    Il titolo del post è un furto ai danni di Pietro Citati e del suo articolo per Repubblica.

  • Max Headroom, venti minuti nel futuro

    Max Headroom, venti minuti nel futuro

    A più di trent’anni dalla sua creazione fa uno strano effetto pensare a quel curioso personaggio che fu Max Headroom; il suo successo non è mai stato replicato e il suo modello non è più stato riproposto in un mondo ormai invaso da idoli che sembrano esistere solo nello spazio televisivo, il che è bizzarro per un personaggio nato appunto come pura essenza tv.

    Nel 1985 Max viene presentato come “il primo conduttore TV generato al computer”. In realtà, l’intervento del computer è minimo, data la complessità per la tecnologia CG dell’epoca di generare un intero personaggio in tempo reale; l’immagine di Max è quella dell’attore Matt Frewer, pesantemente truccato e con indosso una lucida giacca in fibra di vetro, sovraimpressa a uno sfondo in chroma key; la ripresa è poi distorta con effetti decisamente analogici come disturbi elettronici e montaggio frenetico per dare l’idea di generazione in qualche modo approssimativa e sottoposta a errori.

    Max Headroom

    La prima apparizione di Max Headroom avviene in un breve film per la tv britannica Channel 4, Max Headroom: 20 Minutes into the Future, forse la prima storia cyberpunk concepita per la televisione. La trama di 20 Minutes riguarda l’indagine di Edison Carter, un reporter d’assalto che svela un progetto segreto per trasmettere i Blipverts, pubblicità così potenti e compresse da essere in grado di fare letteralmente esplodere gli spettatori. Carter viene catturato dai cattivi di turno, guidati dal perfido direttore del Network 23, il canale tv per cui lo stesso Carter lavora, e la sua memoria copiata in un computer. Successivamente Carter riesce a fuggire ai suoi sequestratori; parallelamente, anche il suo doppione digitale in qualche modo “evade” e, grazie a un piccolo canale televisivo, diventa autocosciente e libero di muoversi per l’etere.

    Max Headroom

    Il sorprendente inizio del film è interamente composto da sequenze già girate con un altro mezzo: la prima ripresa sui titoli è una dissolvenza atttraverso l’effetto neve di un televisore; la storia viene raccontata esclusivamente con l’uso della telecamera che riprende in diretta la soggettiva del protagonista oppure da spezzoni di video di sicurezza a circuito chiuso, videotelefoni, rendering computerizzati di mappe di città ed edifici. Ciò che viene mostrato nei primi minuti è una ripresa di seconda mano, materiale di riciclo e scarto recuperato, in un’assenza di materiale “puro”.

    Max Headroom

    Scarto è anche il desolante panorama della città del futuro, una immensa periferia cosparsa di macerie abitate da un’umanità che pare sopravvissuta a un disastro e da cui si ergono mucchi di televisori inspiegabilmente accesi e funzionanti. I rifiuti e i detriti sono ovunque, anche a ridosso delle banche dei corpi, depositi semiclandestini dove i cadaveri sono venduti e smembrati per il mercato dei trapianti.

    Max Headroom

    Bryce Lynch, il consulente al servizio del Network 23, è un giovane hacker, inventore dei Blipverts e di personaggi generati al computer; è lui che ricostruisce l’alter ego digitale di Carter, che poi evolve in Max Headroom, partendo da una scansione della sua memoria. Ed è un duello tra hacker, Bryce e Theora, guida di Carter, quello che avviene elettronicamente tra i corridoi dell’emittente televisiva, spostando da remoto ascensori, aprendo o chiudendo porte, controllando le videocamere, cercando di contrastare o aiutare l’opera del giornalista tv.

    Max Headroom

    Hacker, o quanto meno “smanettone” è anche Blank Reg, il gestore di una piccola rete televisiva in cui il cassone elettronico che contiene l’essenza di Max viene recuperato e ospitato e la cui sede ambulante è un camion; Blank è anche un pirata anagrafico, non essendo registrato negli onnipotenti computer governativi.

    Max Headroom

    Il vero protagonista paradossalmente si mostra molto poco ma le sue apparizioni sono fulminanti: Max Headroom compare sullo schermo del televisore, ha una parlantina rapida e caustica e, anche se in preda a una specie di balbuzie digitale, fa battute a raffica; la sua immagine è disturbata, interrotta, si blocca in piccoli loop, accelera o rallenta inaspettatamente; sembra il figlio del difetto, un postumano nato da un guasto elettronico più che un idolo voluto e creato, la smagliatura di un mondo, quello televisivo, che dovrebbe apparire lucido e perfetto ma che sotto una superficie visivamente attraente mostra la realtà dell’imperfezione o dell’orrore. Con il suo essere interferenza, segnale di intromissione, Max rivendica uno spazio libero del palinsensto e una sua estetica, il gusto per il disturbo visivo e dialettico.

    Dopo il film, il personaggio Max Headroom gode di un breve ma intenso periodo di successo internazionale, in cui il nostro si esibisce come veejay, ironico commentatore degli avvenimenti, intervistando star della musica, del cinema e della tv, e finendo per essere a sua volta intervistato come ospite al David Letterman Show, a cui ovviamente partecipa attraverso un televisore. Al primo film segue una serie tv, poi interrotta a causa del confronto diretto con colossi come Dallas e Miami Vice. Max appare poi, direttamente o citato, in vari film e videoclip.

    Nel 1987 Max Headroom è anche involontario e indiretto protagonista di un episodio di hacking televisivo, soprannominato appunto Interferenza di Max Headroom, in cui alcuni ignoti riescono a inserirsi nelle trasmissioni di due emittenti di Chicago, interrompendole per qualche minuto con una sequenza in cui uno di loro, travestito da un fin troppo irriverente Max, recita frasi apparentemente senza senso e conclude facendosi sculacciare.

  • Na-no na-no, professor Mork

    Robin Williams in Mork & Mindy

    In genere non mi piace scrivere necrologi ma nel caso di Robin Williams dovevo da tempo fare un ringraziamento personale e ormai purtroppo tardivo al suo meraviglioso Mork.

    Mork mi ha fatto divertire, ridere, pensare; ha fatto anche un’altra cosa per me ma l’ho capito solo anni dopo: Mork mi ha insegnato che cos’è il surrealismo. Meglio ancora: mi ha insegnato a essere surrealista. Prima ancora di conoscere i nomi di Breton, Dalì, Magritte, Prévert o Ernst, avevo imparato che cosa significasse guardare il mondo da surrealisti senza nemmeno sapere che esistesse un movimento surrealista. E tutto grazie a Mork.

    Il soffitto di un uomo è il pavimento di un altro uomo.

    Il personaggio di Mork è surreale già di per sé: beve con il dito; dorme appeso a testa in giù o con la testa infilata nel divano; invecchia al contrario, diventando bambino; arriva sulla Terra dal suo pianeta natale dentro a un uovo e da un uovo è nato, deposto da un padre che è un contagocce e che ha lasciato sua madre, una provetta, per due flaconi; tratta gli oggetti come esseri viventi, parlandoci; in alcuni casi questi gli rispondono pure.

    Robin Williams in Mork & Mindy

    Nei suoi tentativi di comprendere la società umana, Mork ne smonta e rimonta la struttura, disintegrandone e ricomponendone convenzioni, regole e linguaggio secondo la sua interpretazione aliena; potrebbe sembrare il punto di vista di un bambino che ignora la complessità, ma in realtà Mork inquadra il nostro mondo attraverso la conoscenza di un extraterrestre che ha studiato moltissime altre civiltà; quindi semmai a essere bizzarro non è lui ma l’essere umano al confronto dell’intero universo.

    Una banca può prestare denaro per comprare un battello o una grande macchina, non per comprare cibo, perché è difficile rientrarne in possesso.

    Le continue battute rendono talvolta difficile capire se Mork stia scherzando oppure se stia esprimendo seriamente un’opinione; probabilmente tutt’e due le cose allo stesso tempo. Sono aforismi graffianti o nonsense, che nascono dal confronto delle mentalità terrestre e orkiana attraverso il filtro dell’osservatore esterno. Come il signor Spock, anche Mork fatica spesso a comprendere gli esseri umani; ma mentre il vulcaniano di  Star Trek considera gli umani illogici, quasi “difettosi”, l’alieno venuto da Ork non esprime giudizi positivi o negativi, pur trovandosi a volte di fronte a situazioni che lui trova astruse e inutilmente complicate; da vero cosmopolita si limita a osservare e a tentare di razionalizzare, uscendo poi con spiegazioni dalla logica ferrea per lui ma spiazzante per noi poveri terrestri, giungendo per altre vie a quell’automatismo psichico puro tanto caro ai Surrealisti.

    Mork & Mindy

    Se il suo gesto di saluto appare a noi spettatori come una caricatura del suo serissimo corrispondente vulcaniano, gli appellativi onorifici ed estremamente rispettosi con cui Mork si rivolge al suo superiore Orson (“Vostra Immensità”, tanto per ricordarne uno) sono una iperbole dei titoli umani, un po’ come i megadirettori di Fantozzi, altro personaggio ascrivibile al surrealismo.

    – Ci siamo visti troppo, ultimamente.
    – Chiudi un occhio, così mi vedrai di meno.

    Prima ancora dell’insegnante Keating in L’attimo fuggente, che ricordava ai suoi studenti che bisogna sempre guardare le cose da angolazioni diverse (“è proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva, anche se può sembrarvi sciocco o assurdo”), e di tanti altri ruoli fuori dagli schemi, con una loro propria logica e folli solo in apparenza, Robin Williams è stato per me il professor Mork, docente di surrealismo.

  • Dead Set, o la televisione dei morti viventi

    Dead Set

    Nel 2008, a dieci anni dalla nascita dello show televisivo Big Brother, in Gran Bretagna esce Dead Set, miniserie horror scritta dal giornalista e umorista Charlie Brooker.
    Dead Set è una zombie apocalypse ambientata quasi completamente nella casa di Big Brother; la serie è stata trasmessa per la prima volta da Channel 4, la stessa emittente che mandava in onda il Grande Fratello inglese, e ha visto l’autoironica partecipazione di alcuni dei protagonisti dello show originale. La trama segue l’impianto classico del genere, con la rapida diffusione dell’epidemia che provoca la trasformazione della popolazione in morti viventi (nella fattispecie quelli che corrono) e il successivo assedio dei pochi superstiti in uno spazio ristretto, appunto la casa di Big Brother.
    Apparentemente nulla di nuovo se non fosse appunto per l’ambientazione, che trasforma il film di genere in una spietata satira della reality tv e del suo pubblico, e per la forte carica di violenza splatter, insolita per un prodotto televisivo, che fa schizzare sangue e frattaglie su pavimenti, pareti e obiettivi delle telecamere.

    Dead Set
    Se nel ciclo degli Zombi di George A. Romero i morti viventi sono una metafora della società (di volta in volta punitrice, consumista, militarizzata), qui diventano incarnazione del pubblico televisivo, inconsapevole complice della sua stessa compiaciuta ed entusiastica autocannibalizzazione; un pubblico ridotto a massa per cui la televisione produce e manda in onda una programmazione tagliata sul minimo comune denominatore, a incontrare il gusto della maggioranza; un pubblico che prova al tempo stesso piacere e disgusto a osservare, partecipare e in definitiva a osservarsi.
    A poco o nulla valgono i tentativi di resistere dei superstiti, dalle barricate nella casa fino alla cinica trovata del produttore di usare gli stessi corpi smembrati dei protagonisti dello show come succulenta esca per gli zombi, così come del resto faceva con loro quando erano vivi, dandoli in pasto ai telespettatori affamati della loro vita.

    Dead Set
    Il finale trova i morti viventi a fissare le telecamere ormai inutili del programma, con l’immagine che si replica all’infinito per l’eternità, con l’occhio, che è anche il logo di Big Brother, osservatore e osservato e la quotidianità dello show che diventa quotidianità della vita e ne decreta definitivamente la morte.

  • Un saluto a Gerry Anderson

    Un saluto a Gerry Anderson

    Una scena di Spazio 1999

    Gerry Anderson se n’è andato. Noto principalmente come produttore dei Thunderbirds, per me è stato soprattutto il creatore di quel magnifico ricordo d’infanzia che è Spazio 1999.

    Nato originariamente come uno spin-off di UFO, Spazio 1999 visse in realtà di vita propria. La storia cominciava il 13 settembre 1999, quando una catastrofica esplosione nucleare sulla Luna spediva il nostro satellite e la Base Lunare Alfa che vi si trovava fuori dall’orbita terrestre, alla deriva nel cosmo.

    Nato poco prima della rivoluzione portata da Guerre stellari, il telefilm risentì dell’influenza di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: il personale della base non era costituito da militari, come nella sf alla Star Trek, ma da scienziati e tecnici; gli incontri con i misteri del cosmo si concludevano spesso con l’impossibilità di intervenire o con il fallimento degli umani di fronte a realtà più grandi di loro che a stento potevano comprendere.

    Prevaleva un approccio scientifico (per quanto le teorie del professor Bergman fossero quanto meno approssimative), l’osservazione piuttosto che la conquista, unito al desiderio di trovare una nuova casa e a un certo fatalismo (gli alfani non avevano modo di controllare la rotta lunare o di tornare a casa).

    Se il fascino della serie era dovuto sicuramente all’impatto sull’immaginario della futuribile e credibile tecnologia (niente teletrasporto ma rozze e funzionali astronavi Aquila, a cui si arrivava mediante una metropolitana interna che collegava i diversi settori della base) e del look (interni completamente bianchi, con finestre che mostravano il desolato suolo lunare, arredo e accessori di design anni ’70, lunghi corridoi inframezzati da colonnine con monitor e sistemi di comunicazione, uniformi che si differenziavano solo per il colore della manica che indicava il settore di competenza), grande influenza la ebbero anche i personaggi meravigliosamente delineati, dal comandante John Koenig (il bravissimo Martin Landau) al professor Victor Bergman, alla dottoressa Helena Russell fino al capitano Alan Carter.

    Mi ricordo le Aquile in volo. Mi ricordo il laser e il comunicatore, ricostruiti pazientemente con il Lego nei pomeriggi a casa dopo la scuola. Mi ricordo l’immane esplosione che iniziava il viaggio della Luna nell’universo. Mi ricordo la Russell e Koenig seduti a riflettere su quello che accadeva, in inquadrature simili a quella in cima a questo post. Mi ricordo i nomi di Gerry e Sylvia Anderson visti decine di volte nei titoli di coda di ogni episodio, quando non restava altro da fare che attendere il giorno o la settimana successivi per una nuova avventura.

    Edit: il primo episodio, direttamente dal canale RAI di YouTube:

    http://www.youtube.com/watch?v=DfL4NV0pHFs

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