• Cronache marziane: la colonizzazione secondo Ray Bradbury

    Cronache marziane: la colonizzazione secondo Ray Bradbury

    Settant’anni fa veniva pubblicato per la prima volta in Italia Cronache marziane di Ray Bradbury, una raccolta di racconti riuniti in un romanzo che illustrava una ipotetica colonizzazione di Marte e il suo successivo repentino abbandono da parte dei terrestri,

    Cronache marziane viene generalmente indicato come opera di fantascienza, ma la classificazione gli va stretta e risulta almeno in parte errata, Se infatti la fantascienza è riflessione sul futuro come conseguenza possibile del presente, questo testo non può rientrare nella definizione. Cronache marziane è una metafora della storia degli Stati Uniti d’America, precisamente della loro colonizzazione da parte degli europei e dello sterminio dei nativi.

    Bradbury poi ignora volutamente il lato tecnologico e scientifico tipico del genere, tralascia verosimiglianza e credibilità per concentrarsi sulla poesia del racconto, in una scrittura lirica, elegante e ricercata. Le astronavi degli invasori non vengono minimamente descritte, mentre le delicate città marziane sono fragili architetture dell’irrazionale che costituiscono una gigantesca ed effimera cristalleria.

    I marziani non hanno forma definita, anzi la perdono confondendosi nella mente dei terrestri con le loro capacità telepatiche fino a incarnare il sogno di ritrovare amici e parenti perduti. L’alieno incarna non un insondabile se stesso ma una speranza perduta, la nostalgia di un passato perduto, come accadrà qualche anno più tardi in un altro grande classico letterario fuori dagli schemi, Solaris di Stanislaw Lem.

    L’avanzatissima, ma non tecnologica, civiltà marziana viene spazzata via, prima ancora che dalla distruzione fisica dei nuovi venuti, dai germi che questi portano con sé, come accaduto del resto a molte popolazioni dell’antica America. Al confronto della raffinata e poetica civiltà marziana, quella terrestre si rivela rozza e barbara, priva di grazia o rispetto. Non è il progresso quindi che migliora una civiltà ma lo scopo che essa persegue.

    L’unica apertura verso il canone fantascientifico è l’autodistruzione dei terrestri in una guerra nucleare che devasta il loro pianeta natio; ma anche questa viene descritta in modo tutt’altro che scientifico (“la Terra sembrò incendiarsi”).

    La conclusione è speranzosa ma pessimista al tempo stesso: dopo che i terrestri hanno abbandonato nel disinteresse il nuovo mondo, i “veri” marziani sono gli ultimi coloni fuggiti alla devastazione atomica della Terra, al tempo stesso un modo per immaginarsi diversi e più in sintonia con la natura di un pianeta alieno ma anche per sancire la scomparsa definitiva del popolo che lo abitava di diritto.

  • La verifica incerta, ovvero l’attualità di Videodrome

    La verifica incerta, ovvero l’attualità di Videodrome

    Si tende spesso a giudicare “profetica” un’opera che ha anticipato temi, problemi o eventi. In realtà, la riflessione sul presente e sulle possibili consguenze future ha ben poco di profetico: come in una partita a scacchi, si pensa alle mille possibili svolte portate dalle nostre azioni e ai loro effetti.

    In questo, Videodrome, film di esattamente quarant’anni fa, manifesto delle ossessioni del canadese David Cronenberg, non ha sbagliato una mossa. Pur restando saldamente all’interno del brainframe televisivo, Cronenberg ha esplorato, tra gli altri temi, la perdita della capacità di distinguere tra vero e falso, tra realtà e finzione.

    La medializzazione della società porta all’inevitabile perdita di controllo diretto, e quindi di verifica, sul nostro mondo elettronicamente allargato, al cui interno si verificano eventi al di fuori della nostra diretta portata. Il protagonista di Videodrome si trova di colpo a viver in un mondo in cui allucinazione, ricordi, realtà e percezione si confondono al punto da risultare indistinguibili. L’unico discrimine sembra poter essere quello dell’evidente assurdità e improbabilità di ciò che appare accadere, ma anche questa certezza sembra priva di fondamento in un mondo in cui quasi tutto subisce un’accelerazione verso l’eccesso e il paradosso, in cui qualunque evento, per quanto assurdo ci possa sembrare, suona comunque come verosimile. Tutto ciò che sembrava impossibile appare oggi come una probilità, sia per l’avanzamento tecnologico, sia per la degenerazione del comportamento sociale o del linguaggio politico.

    La scelta di una realtà, nel senso di accettare ciò che può essere reale, diventa per alcuni una questione di credo personale, come un atto di fede; allarmante deriva che porta a un preoccupante relativismo più che a una indipendenza di pensiero, ad abbracciare una spiegazione qualunque che non a sviluppare le abilità necessarie per sceglierne consciamente una in particolare.

    Cronenberg spingeva questo all’eccesso anche nella materia: l’allucinazione è parte di noi e modifica a livello fisico il nostro corpo (nella metafora, la società), rendendoci capaci (o incapaci?) di atti in apparenza folli ma perfettamente logici in un ambiente informativamente privo di coerenza, in cui l’assurdo può essere vero perché ciò che sembrava assurdo si è già dimostrato vero.

  • Alive 2007: il bollente suono dei robot

    Alive 2007: il bollente suono dei robot

    Esattamente quindici anni fa usciva Alive 2007, secondo album dal vivo dei Daft Punk. Il disco è una fotografia di un istante della storia del gruppo all’apice della sua esperienza dance elettronica e subito prima della svolta/omaggio disco/r&b di Random Access Memories.

    Concepito come un lungo medley senza interruzioni di greatest hits del duo francese, l’album celebra l’intercambiabilità del campionamento sonoro, la sua possibilità di essere usato e ri-usato in infinite combinazioni per creare brani ogni volta diversi eppure perfettamente riconoscibili.

    I Daft Punk picchiano duro reiterando un quattro/quarti che non ammette via di uscita o pause che non siano quelle in cui persino il bass drum si ferma per fare posto a sample sonori introduttivi, incipit che diventano inni per un pubblico scatenato. Sì, perché la musica apparentemente fredda e calcolata al computer (non si suonano strumenti ma software musicali) scalda la folla accorsa per assistere a un rito collettivo, un rave emozionale fatto di pulsazioni ipnotiche, vertiginosi vocoder, wall of sound in cui si fondono effetti sonori solo ancora vagamente riconducibili alle distorsioni di phaser e flanger, ma soprattutto momenti di esaltazione collettiva in cui un brano viene a galla, interrompendo bruscamente il precedente o emergendone lentamente, corrodendone a poco a poco la struttura con l’infiltrazione di nuove note.

    Non è house, non è elettronica ma puro rock di rottura, alla faccia dello stile “commerciale”, che non si limita a un omaggio (su tutti gli intramontabili Kraftwerk, ma anche Orchestral Manoeuvres in the Dark o gli Chic) ma pesca a piene mani da musica e storia mediale, celebrando al tempo stesso la riproducibilità tecnica dell’arte ma anche il suo essere unica nella gamma infinita di possibili variazioni sonore e remix di poche battute.

    Quelli raccontati dai Daft Punk non sono i sogni di robot che anelano a diventare umani (vedi il loro poco riuscito film Electroma) ma di umani affascinati dalla tecnologia che impregna le loro vite e dal calore che se ne sprigiona.

  • Dune: le sabbie della distruzione

    Dune: le sabbie della distruzione

    Dune è uno di quei film che spingono per natura al confronto con il libro da cui sono tratti, inevitabilmente socntrandosi con la classica questione della lettura personale: ogni lettore ha un proprio Dune personale, una visione soggettiva e giocoforza parziale del romanzo. Qualunque trasposizione cinematografica non può raggiungere la perfezione per tutti proprio perché infinite sono le interpretazioni personali della scrittura.

    Denis Villeneuve ha fatto di Dune il suo Dune, nello stile a cui siamo ormai abituati con Arrival e Blade Runner 2049: immagini potenti, livelli di lettura a diverse profondità, obiettivo puntato sui sentimenti dei personaggi. I temi più politici e sociali di Frank Herbert sono lasciati sullo sfondo: l’ecosistema del pianeta, le complesse lotte per il controllo della galassia, i sottili giochi di alleanze tra le potentissime corporazioni, il misticismo e l’attesa del salvifico messia sono appena accennati o non sembrano avere grande influenza sullo sviluppo quanto invece il percorso di crescita del protagonista e la rappresentazione visiva che costituisce il vero oggetto della messa in scena.

    Il giovanissimo Paul Atreides è, in questa prima parte, un giovane erede di un ducato distrutto e il frutto di centinaia di anni di pazienti tessiture genetiche, sociali e religiose volte a fare di lui una specie di profeta e leader spirituale; è un profeta e leader riluttante, che dubita di se stesso e non vuole accettare il ruolo che una Storia più grande di lui vorrebbe fargli incarnare, tormentato da visioni che gli rinfacciano un futuro già scritto da decine di generazioni, senza libero arbitrio o diritto di scelta, con poteri che non vuole e che lo trasformano ogni giorno di più in un predestinato. Ogni evento è per lui un déjà vu, che gli propone il presente come un continuo flashback da un futuro a cui non vuole arrivare. La circolarità del tempo, già benedizione e maledizione in Arrival, suggerisce continuamente soluzioni che permettono di superare le difficoltà ma conducono verso un ineluttabile percorso di morte e distruzione.

    Il mondo di Dune è un nuovo medioevo, in cui i computer non esistono più perché considerati inaffidabili; le macchine sono quasi pura meccanica. Nel film tutto ciò priva i set della tecnologia, in genere onnipresente nella fantascienza, lasciando scenografie spoglie in cui emergono solo pochi oggetti essenziali. Tutto è sproporzionato e disumano: le distanze spaziali sono inimmaginabili, i palazzi giganteschi, le stanze altissime e buie, il deserto del pianeta Arrakis una ignota distesa di infinite possibilità attraversato da vermi lunghi centinaia di metri. Le astronavi non hanno nulla di aerodinamico e sono piuttosto monumenti usciti da un incrocio tra gli oggetti surreali di René Magritte e i monoliti di Stanley Kubrick, residui di civiltà antiche al pari delle piramidi egizie. Gli edifici sono disumani blocchi di cemento che, per difendere gli abitanti dallo spaventoso calore del pianeta, offrono alla luce solo poche feritoie.

    Il raffinato production design di Villeneuve non concede sfumature in un mondo rigorosamente in bianco e nero, che non lascia spazio ad altro colore che a quello della preziosa spezia: su Arrakis la luce è morte e l’oscurità è vita; ma è invece proprio nell’oscurità che gli Atreides trovano la morte per mano dei loro spietati nemici, Harkonnen e Sardaukar imperiali, che a loro volta fanno del nero il loro tratto distintivo.

    Gli spaventosi vermi delle sabbie sono quasi invisibili, più forze della natura che creature viventi, rappresentati come onde di tempesta sabbiosa o terrificanti voragini che si aprono all’improvviso inghiottendo indifferentemente qualsiasi cosa. I loro passaggio segna la morte ma ancora di più l’annullamento dell’umano e dei suoi sforzi vitali. La sabbia è la vera protagonista, unheimlich che non concede scampo e tutto occupa, sguardo dello spettatore compreso. Dune è un viaggio iniziatico e terminale verso l’annientamento di ciò che rimane della civiltà dell’immagine e dei suoi feticci, in cui paradossalmente la forma del sabbioso nulla è in sé l’unico contenuto.

  • Città tumorali: i grattacieli e le catacombe di Metropolis

    Città tumorali: i grattacieli e le catacombe di Metropolis

    In bilico tra espressionismo e futurismo, la megacittà di Metropolis, film del 1927 di Fritz Lang, è uno degli esempi più imitati e influenti della storia del cinema, da Blade Runner di Ridley Scott al Quinto elemento di Luc Besson.

    La città, come il suo simbolo, il grattacielo, è sviluppata in verticale in entrambi i versi e così la società che la abita: più si sale e più l’architettura si fa magnifica, ariosa, riservata a pochi eletti; più si scende, molto sotto la superficie, e più lo scenario, pur mantenendo lo spettacolare gigantismo, si fa povero, ruvido, ostile. Non ci sono vie di mezzo o classi intermedie: in alto risiedono i ricchi industriali, in basso i lavoratori. La soluzione proposta di Lang (il “cuore che deve mediare tra cervello e mani”) non è rivoluzionaria in senso marxista e nemmeno socialista, ma è evidente il conflitto di classe tra ricchezza del capitalismo e povertà al confine con il sottoproletariato.

    Metropolis, che in superficie ricorda i progetti futuristi di Antonio Sant’Elia, con grattacieli che diventano le nuove chiese (non a caso il film si chiude sul tetto di una cattedrale), nei sotterranei degenera nel fumo delle periferie della seconda rivoluzione industriale: macchine gigantesche e mostruose, a cui lavorano fino letteralmente allo sfinimento gli abitanti del sottosuolo, ingranaggi, pistoni, valvole, scarichi sembrano alienati dal loro scopo quanto i disgraziati che li fanno funzionare. Le macchine servono a mantenere lo stile di vita di chi vive in superficie, ma dal loro aspetto la funzione è indeducibile: non si colgono differenze tra centrali elettriche, fabbriche, servizi.

    I palazzi dei lavoratori sono slum verticali da edilizia popolare, non seguono il razionalismo architettonico ma sono invece costruiti quasi casualmente, ammucchiati. Attraverso le vie che li collegano si giunge a neo-catacombe, caverne/gallerie di miniera dove il massimo dell’artificialità è il puro e semplice scavo nella roccia. Sono cunicoli fuori controllo, edilizio e sociale, che si riempiono di un’umanità distrutta in cerca di una nuova speranza, che giunge attraverso un messaggio quasi profetico.

  • Fenomenologia del tenente Colombo

    Fenomenologia del tenente Colombo

    Circa cinquant’anni fa esordiva sugli schermi televisivi la serie Colombo, con protagonista Peter Falk nei panni dell’omonimo tenente. Il format era innovativo: benché incardinata nei solidi meccanismi del giallo poliziesco, la trama era caratterizzata da una originale idea, che ribaltava lo schema del genere: il pubblico doveva sapere fin dall’inizio chi era l’assassino; l’interesse per la storia scaturiva dalle indagini del tenente che, pezzo dopo pezzo, metteva insieme il complesso puzzle di alibi, indizi e prove.

    Si assisteva a una serie di sopralluoghi, colloqui e interrogatori con l’assassino, quasi sempre appartenente all’alta società, rappresentante del mondo della moda, dello spettacolo, dell’industria, e i suoi diretti conoscenti e colleghi di lavoro, in cui un deferente Colombo pareva indugiare incerto sui passi da compiere, fino a che non dimostrava lo smascheramento del colpevole proprio all’assassino.

    La figura del tenente è un piccolo prodigio di caratterizzazione, dovuto sia alla qualità della sceneggiatura sia alla magistrale interpretazione di Peter Falk.

    Povero italo-americano in un mondo di ricchi wasp, Colombo conduce una inconsapevole vendetta di classe: il tenente è un Fantozzi a una cena padronale; è malvestito in confronto a un mondo alla moda, l’eterno impermeabile sporco e spiegazzato come pressoché unico costume, la vecchia utilitaria, una Peugeot 403, stona di fronte alle auto di lusso del mondo in cui si muove.

    Il tenente non sa come comportarsi nell’alta società; il suo cibo preferito è il popolare chili e l’alta cucina lo sorprende e lo meraviglia; è imbarazzato, impacciato e ossequioso; sempre attento a non disturbare, timido nelle movenze come se un suo gesto sgraziato possa rompere qualche delicata opera d’arte, introduce l’interrogatorio con un deferente “mi perdoni se la disturbo, lei ha così tanto da fare” e lo conclude con un altrettanto deferente “mi scusi, non la importunerò più”, promessa regolarmente disattesa. Colombo, perenne vincitore, appartiene al proletariato; l’assassino, sempre sconfitto, al mondo dei ricchi.

    Le sue vittorie non portano avanzamenti di carriera, né lui sembra desiderarli. Al contrario dei suoi indagati, non ha ambizioni o mire, è pago di ciò che ha: la famiglia, il lavoro, il cane.

    Lo spettatore conosce già il modus operandi del tenente, al contrario dell’assassino di turno. Colombo è un indagatore seriale per definizione, l’assassino è sempre occasionale, ignora lo stile del suo avversario che è invece ben noto a noi che lo seguiamo puntata per puntata. Nel gioco delle parti ribaltate, l’assassino diventa la vittima di un serial killer.

    L’atteggiamento del tenente Colombo è cordiale, simpatico, eppure falsamente sincero: egli sa già che cosa ha scoperto ma lo dice solo alla fine della conversazione, con un puntuale “Ah, ancora una cosa…”. Il dettaglio importante, il cuore rivelatore, la prova definitiva vengono lasciati cadere addosso all’indagato a tradimento, quando un difficile interrogatorio mascherato da amichevole colloquio sembra ormai brillantemente superato: “Sì, dev’essere sicuramente come dice lei, eppure c’è una cosa che non riesco a spiegarmi…”.

    Colombo come un piraña assaggia la sua vittima e poi la divora inesorabile fino all’osso. Il suo linguaggio del corpo esprime aggressività mascherata: la schiena si incurva, la testa si inclina minacciosamente verso il bersaglio, gli occhi piccoli e svegli scrutano costantemente. La nostra sadica soddisfazione deriva dalla ripetizione dei colpi segreti del tenente, dalla sua attenzione per i dettagli apparentemente insignificanti e alla sua capacità di trovarne i collegamenti. Attendiamo il suo attacco finale alla conclusione della puntata mentre vediamo l’assassino dibattersi come la preda di un ragno, imprigionandosi sempre più nella tela.

    Sotto le mentite spoglie di un cordiale simpaticone, Colombo si rivela essere un freddo indagatore, un predatore naturale che non prova alcun desiderio di vendetta, forse nemmeno di giustizia, ed è forse quasi dispiaciuto quando riesce a incastrare la sua vittima. Non è un vendicatore ma un glaciale esecutore del meccanismo della giustizia.

    Il titolo del post è un furto ai danni di Pietro Citati e del suo articolo per Repubblica.

  • Spider-Man: un nuovo universo metamediale

    Spider-Man: un nuovo universo metamediale

    La storia delle origini di Spider-Man è già stata raccontata innumerevoli volte; ecco perché alla sua ennesima reincarnazione in Spider-Man: un nuovo universo il nuovo Uomo Ragno si trova circondato dai suoi omologhi provenienti da universi paralleli che narrano il medesimo, archetipico racconto, se pur con minime differenze: il personaggio si è auto-metabolizzato, è diventato conscio di essere personaggio, racconta la sua storia dando per scontati particolari che tutti ormai conoscono in quanto spettatori o lettori delle sue avventure.

    Nel film splendidamente e lussuosamente animato di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman il giovane Miles Morales sogna di essere Spider-Man come milioni di altri fan, abitanti del suo e del nostro universo. Un nuovo universo si appoggia alla nostra paura e desiderio di essere Spider-Man: Miles è uno di noi, è il lettore del fumetto che diventa prima cosplayer e poi, grazie al solito (sempre il solito) ragno radioattivo, il nostro nuovo amichevole supereroe di quartiere.

    L’investitura è ufficializzata con il suo diventare fumetto, con pensieri che d’improvviso si concretizzano sullo schermo in didascalie e appoggiature. Del resto, la storia di ognuno dei molti Spider-Man del film (come anche i loro racconti e i loro piani) è raccontata in un fumetto animato; per parlare di se stesso, il personaggio diventa metafumetto e metafilm. Persino il flashback familiare dell’acerrimo nemico Kingpin è reso con il tratto matita dello studio per una graphic novel.

    Non c’è solo l’universo Marvel in questo film. I riferimenti cinematografici e letterari sono innumerevoli, a partire dai rapporti quasi shakespeariani della famiglia Morales.

    Ogni Spider-Man, Spider-Woman, Spider-Ham indossa il proprio personaggio con una diversa grafica, ambientazione, musica: il mondo di Miles è immerso nella cultura hip hop, del rap e dei coloratissimi writing; Spider-Man Noir è un personaggio hard boiled dei film in bianco e nero di ispirazione chandleriana; Peni Parker pare uscita dalle chine di un mangaka. L’oggetto MacGuffin attorno a cui ruota la narrazione perde persino il suo nome e, come il flacone maltese di derivazione ancora shakespeariana, è la materia di cui sono fatti i sogni, dei protagonisti del film e di noi suoi spettatori.

  • La genitorialità ai tempi degli zombi

    La genitorialità ai tempi degli zombi

    Il mondo post apocalittico degli zombi non è esattamente un parco giochi per bambini; per sopravvivere bisogna essere adulti in grado di correre e sparare.

    Fin dai classici film di Romero i bambini sono vittime e mai protagonisti. Gli adulti, genitori e non, si trovano spesso nei loro confronti nell’atroce ruolo dei carnefici più che in quello dei salvatori. Non li si può biasimare, visto che dal canto loro, i piccoli hanno la pericolosa tendenza a cadere vittime dei morti viventi e a trasformarsi a loro volta in piccoli ma voraci consumatori di carne umana viva.

    La notte dei morti viventi

    Cadono quindi sotto i colpi dei fucili prima la piccola Cooper, che uccide e divora i suoi genitori nella Notte dei morti viventi, poi i due anonimi bambini (nella realtà figli del regista) in Zombi.

    Sopravvive comunque una speranza, incarnata proprio da una nuova generazione. Una dei due sopravvissuti a Zombi è incinta e nel Giorno degli zombi vediamo nell’ultima scena la protagonista segnare i giorni che passano su un calendario, forse per ricordare il tempo trascorso dopo l’apocalisse o quello che resta prima di un parto.

    I morti viventi, a differenza dei vivi, non si riproducono; la loro è una società sterile, costretta a perpetuare se stessa solo in modo conservativo, e, a lungo termine, a decadere nella putrefazione. L’aumento dell’orda è basato unicamente sull’assimilazione: zombi si diventa, non si nasce. La possibilità di figliare rimane prerogativa e tratto distintivo dei viventi, parte minoritaria e rivoluzionaria rispetto alla massa dei morti deambulanti.

    E’ proprio dalla difesa dei figli e, per estensione, delle nuove generazioni, che muove un nuovo filone del genere nel mondo del post 11 settembre. In particolare due film sono accumunati dal senso di incertezza e disorientamento di fronte a fenomeni globali, che colpiscono gli indifesi cittadini americani a casa loro e nei loro affetti familiari.

    World War  Z

    In World War Z il protagonista è un superagente dell’ONU incaricato di trovare una cura per il morbo che sta trasformando l’umanità in una unica, gigantesca orda di morti viventi; ma è anche, e prima di tutto, un padre che lotta per salvare la sua famiglia, che verrà protetta dal governo solo fino a quando lui sarà utile in qualche modo: nella glaciale logistica della sopravvivenza non c’è spazio per chi non è direttamente attivo. Brad Pitt si trova quindi a inseguire un ipotetico vaccino in un tour forzato intorno al pianeta per salvare sì il destino della razza umana ma soprattutto quello di sua moglie e dei suoi figli.

    Contagious - Epidemia mortale

    Se nella guerra mondiale contro gli zombi c’è la speranza nella scienza medica e nella sua unione globale, in Contagious – Epidemia mortale (brutto titolo italiano per il più significativo originale Maggie) non c’è alcun rimedio: il vecchio padre Schwarzenegger è costretto ad assistere impotente alla progressiva e inesorabile zombificazione della figlia adolescente.

    Politicamente repubblicano, il personaggio interpretato da Schwarzie resiste alle pressioni del governo affinché consegni la figlia a un centro di quarantena, dove i “morituri” sono tenuti ammassati in attesa del colpo di grazia. Ma la sua è anche una battaglia per il diritto a una eutanasia autodeterminata, per quando il processo, simile a un cancro, sarà arrivato alla fine: il padre, erede della frontiera del vecchio West, resta con la figlia fino all’ultimo, pronto a spararle per risparmiarle la non-vita degli zombi.

  • La notte dei morti viventi

    La notte dei morti viventi

    Cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1968, usciva nei cinema La notte dei morti viventi di George A. Romero. Il film fu uno choc visuale, culturale e politico. Fu uno choc anche per i malcapitati bambini e ragazzi che assistettero alle prime proiezioni, dato che non esisteva divieto ai minori (il nuovo sistema sarebbe sato introdotto solo il mese successivo) e fino a quel momento gli innocui horror che sfuggivano al Codice Hays erano stati considerati adatti per qualche spavento giovanile e accessibili ai più piccoli nelle proiezioni pomeridiane. I testimoni parlarono di spettatori piangenti e urlanti oppure ammutoliti dal terrore e disorientati dal finale.

    Il pubblico era abituato ai film dell’orrore “non filtrati” come puro intrattenimento, dove Dracula, l’Uomo lupo e altri simpatici mostri spaventavano ma divertivano, dove il Male veniva sconfitto e il Bene trionfava, all’insegna di un tranquillizzante happy end e di un ben poco impegnativo manicheismo.

    Qui i mostri non avevano nemmeno un nome (nel film non si usano mai termini come “zombi” o “morto vivente”), non avevano alcuna caratteristica romantica come un vampiro e nessuna fascinazione fantascientifica come la creatura di Frankenstein o gli invasori marziani; erano semplicemente morti che camminavano, persone decedute qualunque senza altro scopo che quello di divorare i vivi.

    L’eroe era un nero e finiva ucciso, in un paese che stava faticosamente uscendo dall’apartheid e per giunta a pochi mesi dall’assassinio di Martin Luther King. Nessuno dei protagonisti aveva le idee chiare su come far fronte alla situazione, a parte quello più odioso e antipatico che per giunta sembrava inaffidabile fino alla fine. Il piccolo gruppo di assediati invece di unirsi per escogitare una strategia di fuga si perdeva in conflitti interni. Negli USA disorientati dalle vicende della guerra del Vietnam la fiducia nei leader vacillava, le certezze di sempre crollavano una dopo l’altra.

    La solida famigliola americana anni ’60 perdeva ogni connotazione rassicurante quando la figlioletta attaccava e divorava madre e padre, senza mostrare alcun sentimento, nemmeno odio o rivalsa; dopo che i genitori avevano fatto di tutto per proteggerla, la bambina li sbranava e finiva a sua volta uccisa dall’eroe “buono”.

    Le riprese erano realistiche, con una camera a mano in costante movimento che dava un tono frenetico e concitato, una via di mezzo tra il filmato amatoriale, con un bianco e nero a grana grossa, e il mockumentary; per contrasto, le scelte di angolature e le prospettive esagerate, in stile quasi espressionista, distorcevano la realtà rendendola ancora più spaventosa e claustrofobica.

    Con un gruppo di attori quasi tutti non professionisti, poco più di centomila dollari di budget (il film ne incassò circa trenta milioni), effetti speciali che mostravano orrendi e verosimili pasti a base di carne umana, Romero metteva insieme lo zombi di origine haitiana con i vampiri di Io sono leggenda, in una forma inedita che incarnava, condannandoli, diversi aspetti della società dell’epoca e si fondeva con la pulsione di morte freudiana. Per la prima volta il mostro non discendeva più o meno inconsciamente da una paura collettiva (la scienza fuori controllo, l’incubo radioattivo, il nemico russo) ma era la metafora voluta e cercata del suo stesso pubblico, che affollava le sale per cibarsi a sua volta delle vittime dei morti.

    Infine, Romero inaugurava una serie apparentemente infinita di pellicole, variazioni sul tema, remake, parodie, che dura ancora oggi, diffondendo la figura del morto vivente anche oltre lo schermo, fino a renderlo un personaggio popolare. Dopotutto, i morti viventi siamo noi.

  • Miss Italia Cyberpunk

    Miss Italia Cyberpunk

    Ecco una notizia che sembra uscita da un romanzo cyberpunk degli anni ’80: nel 2018 per la prima volta una cyborg arriva alle finali di Miss Italia, piazzandosi addirittura al terzo posto.

    La storia di Chiara Bordi è stata ormai raccontata nei dettagli: a dodici anni perde la gamba sinistra dal ginocchio in giù a causa di un incidente stradale. Grazie anche al (legalmente sudato) risarcimento dell’assicurazione si può permettere una gamba artificiale state of the art. Fa sport, diventa modella e si iscrive all’edizione 2018 del concorso di bellezza Miss Italia.

    La cosa ha fatto notizia anche per gli attacchi ricevuti da Bordi sui social media. Premesso che, visti i disgraziati tempi che corrono, se non ti prende di mira almeno una decina di screanzati, di cui almeno uno ministro o quanto meno parlamentare, non fai notizia, gli attacchi si sono ovviamente indirizzati sulla caratteristica biomeccanoide della ragazza. Tra le opinioni espresse sono particolarmente interessanti una presunta impossibilità di rappresentare la “bellezza italiana” con un corpo biologicamente incompleto e l’accusa di ricevere voti perché “storpia” (sic!).

    La prima può anche essere (involontariamente) interessante perché cerca di tracciare un confine di cui nessuno si è mai occupato, almeno relativamente a Miss Italia: non conosco i criteri di ammissione al concorso ma non penso sia indicata nel regolamento una percentuale minima di corpo umano. La Bordi è la prima partecipante con un arto palesemente artificiale; magari ce ne sono state altre ma la sostituzione non era evidente (un chiodo in un braccio o un cristallino sintetico). Il confine ignoto è in fondo lo stesso che consideriamo quando vogliamo fissare una soglia all’umanità del cyborg.

    La seconda, superficiale “osservazione” introduce il dubbio che una candidata potrebbe racimolare voti per un supposto “pietismo” della giuria, cosa difficilmente verificabile ma comunque poco rilevante; si potrebbe dire lo stesso di una candidata non necessariamente mutilata, ovvero in condizioni economiche precarie, orfana, reduce da una guerra, vittima di stupro, salvata dalle acque e così via.

    In un concorso di bellezza il fattore bellezza si suppone essere preponderante. Sicuramente per essere eletta Miss Italia conteranno anche il cervello, l’eloquio, le attitudini personali ma non ho mai visto una vincitrice con queste qualità e al contempo agli antipodi dei canoni estetici del momento, segno che la bellezza interiore conterà anche ma quella esteriore è il vero oggetto della valutazione.

    Chiara Bordi gioca intelligentemente con la sua parte artificiale; la protesi presenta una sua ricerca estetica, con un aspetto curato nel dettaglio dai tecnici su precise richieste della ragazza, fino a diventare quasi un accessorio di moda, con motivi decorativi e persino diodi led colorati. La gamba artificiale subisce un make-up come il resto del corpo, anzi, proprio grazie al suo essere artificiale offre più possibilità rispetto alla sua parte organica originale.

    Nel post-umano, come afferma il compianto Mario Perniola, la distinzione tra organico e inorganico si sfuma: addirittura il vestito può avere lo stesso valore della pelle. Quindi la componente meccanica partecipa alla costruzione estetica e può accrescere la bellezza del cyborg. Al pari di un personaggio ballardiano, l’aspirante Miss Italia cerca un perfezionamento che non è diretto verso la riproduzione dell’aspetto originale ma diviene un percorso verso qualcosa di nuovo.

    Qualche anno fa, l’atleta giapponese Maya Nakanishi, anche lei con una gamba amputata, aveva raccolto i fondi per partecipare ai Giochi paralimpici con un calendario in cui metteva in mostra il suo corpo indossando varie protesi, dalle più comuni a quelle sviluppate per l’atletica: un modo estetico di valorizzare quello che viene comunemente considerato, sempre a livello estetico, un difetto.

    Paradossalmente, la Bordi potrebbe aver preso voti proprio perché la sua artificialità è bella, perché contribuisce ad accrescere la bellezza della sua originale componente biologica (non necessariamente solo agli occhi dei futuristi o dei tecnofeticisti), il che farebbe del suo corpo un vero manifesto cyborg al pari di uno scritto di Donna Haraway. Se poi l’intento sia ascrivibile al femminismo oppure assecondi una visione a dominio maschile è tutt’altro paio di maniche.

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