La notte dei morti viventi

Cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1968, usciva nei cinema La notte dei morti viventi di George A. Romero. Il film fu uno choc visuale, culturale e politico. Fu uno choc anche per i malcapitati bambini e ragazzi che assistettero alle prime proiezioni, dato che non esisteva divieto ai minori (il nuovo sistema sarebbe sato introdotto solo il mese successivo) e fino a quel momento gli innocui horror che sfuggivano al Codice Hays erano stati considerati adatti per qualche spavento giovanile e accessibili ai più piccoli nelle proiezioni pomeridiane. I testimoni parlarono di spettatori piangenti e urlanti oppure ammutoliti dal terrore e disorientati dal finale.

Il pubblico era abituato ai film dell’orrore “non filtrati” come puro intrattenimento, dove Dracula, l’Uomo lupo e altri simpatici mostri spaventavano ma divertivano, dove il Male veniva sconfitto e il Bene trionfava, all’insegna di un tranquillizzante happy end e di un ben poco impegnativo manicheismo.

Qui i mostri non avevano nemmeno un nome (nel film non si usano mai termini come “zombi” o “morto vivente”), non avevano alcuna caratteristica romantica come un vampiro e nessuna fascinazione fantascientifica come la creatura di Frankenstein o gli invasori marziani; erano semplicemente morti che camminavano, persone decedute qualunque senza altro scopo che quello di divorare i vivi.

L’eroe era un nero e finiva ucciso, in un paese che stava faticosamente uscendo dall’apartheid e per giunta a pochi mesi dall’assassinio di Martin Luther King. Nessuno dei protagonisti aveva le idee chiare su come far fronte alla situazione, a parte quello più odioso e antipatico che per giunta sembrava inaffidabile fino alla fine. Il piccolo gruppo di assediati invece di unirsi per escogitare una strategia di fuga si perdeva in conflitti interni. Negli USA disorientati dalle vicende della guerra del Vietnam la fiducia nei leader vacillava, le certezze di sempre crollavano una dopo l’altra.

La solida famigliola americana anni ’60 perdeva ogni connotazione rassicurante quando la figlioletta attaccava e divorava madre e padre, senza mostrare alcun sentimento, nemmeno odio o rivalsa; dopo che i genitori avevano fatto di tutto per proteggerla, la bambina li sbranava e finiva a sua volta uccisa dall’eroe “buono”.

Le riprese erano realistiche, con una camera a mano in costante movimento che dava un tono frenetico e concitato, una via di mezzo tra il filmato amatoriale, con un bianco e nero a grana grossa, e il mockumentary; per contrasto, le scelte di angolature e le prospettive esagerate, in stile quasi espressionista, distorcevano la realtà rendendola ancora più spaventosa e claustrofobica.

Con un gruppo di attori quasi tutti non professionisti, poco più di centomila dollari di budget (il film ne incassò circa trenta milioni), effetti speciali che mostravano orrendi e verosimili pasti a base di carne umana, Romero metteva insieme lo zombi di origine haitiana con i vampiri di Io sono leggenda, in una forma inedita che incarnava, condannandoli, diversi aspetti della società dell’epoca e si fondeva con la pulsione di morte freudiana. Per la prima volta il mostro non discendeva più o meno inconsciamente da una paura collettiva (la scienza fuori controllo, l’incubo radioattivo, il nemico russo) ma era la metafora voluta e cercata del suo stesso pubblico, che affollava le sale per cibarsi a sua volta delle vittime dei morti.

Infine, Romero inaugurava una serie apparentemente infinita di pellicole, variazioni sul tema, remake, parodie, che dura ancora oggi, diffondendo la figura del morto vivente anche oltre lo schermo, fino a renderlo un personaggio popolare. Dopotutto, i morti viventi siamo noi.


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