Tag: horror

  • La genitorialità ai tempi degli zombi

    La genitorialità ai tempi degli zombi

    Il mondo post apocalittico degli zombi non è esattamente un parco giochi per bambini; per sopravvivere bisogna essere adulti in grado di correre e sparare.

    Fin dai classici film di Romero i bambini sono vittime e mai protagonisti. Gli adulti, genitori e non, si trovano spesso nei loro confronti nell’atroce ruolo dei carnefici più che in quello dei salvatori. Non li si può biasimare, visto che dal canto loro, i piccoli hanno la pericolosa tendenza a cadere vittime dei morti viventi e a trasformarsi a loro volta in piccoli ma voraci consumatori di carne umana viva.

    La notte dei morti viventi

    Cadono quindi sotto i colpi dei fucili prima la piccola Cooper, che uccide e divora i suoi genitori nella Notte dei morti viventi, poi i due anonimi bambini (nella realtà figli del regista) in Zombi.

    Sopravvive comunque una speranza, incarnata proprio da una nuova generazione. Una dei due sopravvissuti a Zombi è incinta e nel Giorno degli zombi vediamo nell’ultima scena la protagonista segnare i giorni che passano su un calendario, forse per ricordare il tempo trascorso dopo l’apocalisse o quello che resta prima di un parto.

    I morti viventi, a differenza dei vivi, non si riproducono; la loro è una società sterile, costretta a perpetuare se stessa solo in modo conservativo, e, a lungo termine, a decadere nella putrefazione. L’aumento dell’orda è basato unicamente sull’assimilazione: zombi si diventa, non si nasce. La possibilità di figliare rimane prerogativa e tratto distintivo dei viventi, parte minoritaria e rivoluzionaria rispetto alla massa dei morti deambulanti.

    E’ proprio dalla difesa dei figli e, per estensione, delle nuove generazioni, che muove un nuovo filone del genere nel mondo del post 11 settembre. In particolare due film sono accumunati dal senso di incertezza e disorientamento di fronte a fenomeni globali, che colpiscono gli indifesi cittadini americani a casa loro e nei loro affetti familiari.

    World War  Z

    In World War Z il protagonista è un superagente dell’ONU incaricato di trovare una cura per il morbo che sta trasformando l’umanità in una unica, gigantesca orda di morti viventi; ma è anche, e prima di tutto, un padre che lotta per salvare la sua famiglia, che verrà protetta dal governo solo fino a quando lui sarà utile in qualche modo: nella glaciale logistica della sopravvivenza non c’è spazio per chi non è direttamente attivo. Brad Pitt si trova quindi a inseguire un ipotetico vaccino in un tour forzato intorno al pianeta per salvare sì il destino della razza umana ma soprattutto quello di sua moglie e dei suoi figli.

    Contagious - Epidemia mortale

    Se nella guerra mondiale contro gli zombi c’è la speranza nella scienza medica e nella sua unione globale, in Contagious – Epidemia mortale (brutto titolo italiano per il più significativo originale Maggie) non c’è alcun rimedio: il vecchio padre Schwarzenegger è costretto ad assistere impotente alla progressiva e inesorabile zombificazione della figlia adolescente.

    Politicamente repubblicano, il personaggio interpretato da Schwarzie resiste alle pressioni del governo affinché consegni la figlia a un centro di quarantena, dove i “morituri” sono tenuti ammassati in attesa del colpo di grazia. Ma la sua è anche una battaglia per il diritto a una eutanasia autodeterminata, per quando il processo, simile a un cancro, sarà arrivato alla fine: il padre, erede della frontiera del vecchio West, resta con la figlia fino all’ultimo, pronto a spararle per risparmiarle la non-vita degli zombi.

  • La notte dei morti viventi

    La notte dei morti viventi

    Cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1968, usciva nei cinema La notte dei morti viventi di George A. Romero. Il film fu uno choc visuale, culturale e politico. Fu uno choc anche per i malcapitati bambini e ragazzi che assistettero alle prime proiezioni, dato che non esisteva divieto ai minori (il nuovo sistema sarebbe sato introdotto solo il mese successivo) e fino a quel momento gli innocui horror che sfuggivano al Codice Hays erano stati considerati adatti per qualche spavento giovanile e accessibili ai più piccoli nelle proiezioni pomeridiane. I testimoni parlarono di spettatori piangenti e urlanti oppure ammutoliti dal terrore e disorientati dal finale.

    Il pubblico era abituato ai film dell’orrore “non filtrati” come puro intrattenimento, dove Dracula, l’Uomo lupo e altri simpatici mostri spaventavano ma divertivano, dove il Male veniva sconfitto e il Bene trionfava, all’insegna di un tranquillizzante happy end e di un ben poco impegnativo manicheismo.

    Qui i mostri non avevano nemmeno un nome (nel film non si usano mai termini come “zombi” o “morto vivente”), non avevano alcuna caratteristica romantica come un vampiro e nessuna fascinazione fantascientifica come la creatura di Frankenstein o gli invasori marziani; erano semplicemente morti che camminavano, persone decedute qualunque senza altro scopo che quello di divorare i vivi.

    L’eroe era un nero e finiva ucciso, in un paese che stava faticosamente uscendo dall’apartheid e per giunta a pochi mesi dall’assassinio di Martin Luther King. Nessuno dei protagonisti aveva le idee chiare su come far fronte alla situazione, a parte quello più odioso e antipatico che per giunta sembrava inaffidabile fino alla fine. Il piccolo gruppo di assediati invece di unirsi per escogitare una strategia di fuga si perdeva in conflitti interni. Negli USA disorientati dalle vicende della guerra del Vietnam la fiducia nei leader vacillava, le certezze di sempre crollavano una dopo l’altra.

    La solida famigliola americana anni ’60 perdeva ogni connotazione rassicurante quando la figlioletta attaccava e divorava madre e padre, senza mostrare alcun sentimento, nemmeno odio o rivalsa; dopo che i genitori avevano fatto di tutto per proteggerla, la bambina li sbranava e finiva a sua volta uccisa dall’eroe “buono”.

    Le riprese erano realistiche, con una camera a mano in costante movimento che dava un tono frenetico e concitato, una via di mezzo tra il filmato amatoriale, con un bianco e nero a grana grossa, e il mockumentary; per contrasto, le scelte di angolature e le prospettive esagerate, in stile quasi espressionista, distorcevano la realtà rendendola ancora più spaventosa e claustrofobica.

    Con un gruppo di attori quasi tutti non professionisti, poco più di centomila dollari di budget (il film ne incassò circa trenta milioni), effetti speciali che mostravano orrendi e verosimili pasti a base di carne umana, Romero metteva insieme lo zombi di origine haitiana con i vampiri di Io sono leggenda, in una forma inedita che incarnava, condannandoli, diversi aspetti della società dell’epoca e si fondeva con la pulsione di morte freudiana. Per la prima volta il mostro non discendeva più o meno inconsciamente da una paura collettiva (la scienza fuori controllo, l’incubo radioattivo, il nemico russo) ma era la metafora voluta e cercata del suo stesso pubblico, che affollava le sale per cibarsi a sua volta delle vittime dei morti.

    Infine, Romero inaugurava una serie apparentemente infinita di pellicole, variazioni sul tema, remake, parodie, che dura ancora oggi, diffondendo la figura del morto vivente anche oltre lo schermo, fino a renderlo un personaggio popolare. Dopotutto, i morti viventi siamo noi.

  • Tetsuo, l’arma umana di Shinya Tsukamoto

    Tetsuo

    (Altro riciclo di vent’anni fa dalla rivista Betarelease)

    Un uomo si addentra di nascosto in una vecchia officina cadente. Cumuli di spazzatura metallica lo circondano. L’uomo prende un tubo zigrinato e se lo spinge a forza dentro una ferita aperta nella gamba. L’uomo urla. La ferita si riempie di vermi che divorano carne e metallo.

    E’ questo l’inizio di Tetsuo, film indipendente a bassissimo costo del regista giapponese Shinya Tsukamoto.

    In Tetsuo e nel suo sequel/remake Tetsuo II: Body Hammer due uomini si trovano ad affrontare l’inesorabile metamorfosi del proprio corpo. Improvvisamente, del metallo comincia a emergere da sotto la pelle; il corpo assorbe in maniera inscindibile altro metallo dall’esterno. I due diventano degli uomini-macchina, capaci di sparare micidiali proiettili dalle braccia e di sfrecciare a velocità incredibili.

    Tetsuo

    Nei due film troviamo molte delle paure della fine di questo millennio: l’oppressione tecnologica, la mutazione genetica, la claustrofobia del monolocale nel grattacielo, la perdita dell’identità individuale. L’ossessionante tecnologia che ci circonda si fonde e si integra con la biologia. La morte dell’uomo macchina è la corrosione e per evitarla non gli resta altro che inglobare sempre nuovo materiale.

    Il cambiamento non è solo fisico ma anche mentale. Piano piano si fa strada il richiamo a una missione da adempiere, o forse la consapevolezza di una volontà: il metallo si assomma ad altro metallo, la carne ad altra carne; e il multi-uomo-macchina finale è pronto a marciare sul mondo per trasformarlo in una massa di acciaio.

    Se il corpo si trasforma, altrettanto fanno i sensi. Lo sguardo, l’udito ma anche la memoria si fanno elettronici e la loro rappresentazione è una vera e propria estetica del disturbo. Così la voce è un cavernoso rimbombo, l’orecchio trasmette schianti metallici al cervello trasformato in circuiti di fil di ferro. Il flashback cinematografico dell’uomo-macchina è un monitor pieno di interferenze, di neve elettronica attraverso cui i ricordi appaiono distorti, accelerati, riavvolti. La memoria è una cassetta inserita in un videoregistratore guasto.

    Tetsuo II

    Entrambi i film sono ricchi di sequenze frenetiche al limite del subliminale: in pochi decimi di secondo vengono condensate decine di situazioni diverse, punti di vista opposti, visioni del corpo dall’interno e dall’esterno. Il disturbo elettronico si traduce nel nostro cervello in un continuo sovraccarico di impulsi che stordiscono e disorientano. I colori sottolineano la mutazione: in Tetsuo, in bianco e nero, la fusione ha i toni dei livelli di grigio. Al contrario, i colori di Tetsuo II distanziano la carne, calda e rossa, dal metallo, freddo e blu.

    Ai due Tetsuo corrispondono due diverse visioni della città. Nel primo film vediamo un insieme di case basse, piccole fabbriche in rovina, cumuli di rifiuti industriali abbandonati: un tessuto urbano post-industriale in decomposizione ma pur sempre originariamente pensato e costruito a misura d’uomo. La metamorfosi del corpo dell’uomo-macchina diventa parte del disfacimento del corpo-città, una struttura costretta a soccombere alla propria entropia: come nell’Europa dopo la pioggia di Max Ernst, architetture ed esseri viventi diventano indistinti e confusi, collassando in una sostanza unica e imprecisata.

    In Tetsuo II la città è gigantesca, asettica, immutabile, perfetta e disumana, corpo alieno tanto alla carne quanto al metallo: grattacieli di cui non si riesce a vedere la fine, rilucenti ipermercati della civiltà dei consumi, metropolitane dove tutto può accadere nell’indifferenza più totale di imperturbabili viaggiatori. Ma tra quei grattacieli Shinya Tsukamoto è nato e cresciuto e, pur trasmettendo una ossessione claustrofobica per la mega-città di cemento, la rappresenta comunque con colori tenui, prevalentemente sfumature azzurre che la immergono in una atmosfera irreale.

  • Il fantasma della democrazia

    Zombi

    Tra i vari motivi del successo nell’immaginario, non solo cinematografico, della figura del morto vivente c’è senza dubbio il suo essere, più o meno intenzionalmente, allegoria della massa, metafora evidente e accessibile in molti film. Il perturbante scaturisce dallo straniamento di una società che ci appare in qualche modo familiare (i morti sono nostri conoscenti, sono vestiti come noi, frequentano gli stessi luoghi) ma che viene portata al’estremo in quella che sembra l’unica possibile e definitiva evoluzione.

    I comportamenti degli zombi sono spesso rappresentativi di ciò che questi facevano da vivi, ma ripetuti in eterno e privati dell’obiettivo; se il gesto è una memoria della vita passata, la sua perpetuazione insensata diventa un’agghiacciante denuncia dell’inutilità già insita nell’originale, di qualcosa che era stato indotto ma che aveva puro senso sociale: ripetere l’azione non porta ad alcun cambiamento già in vita. In qualche maniera (ed è questa la denuncia più forte di George A. Romero) siamo già zombi da vivi.

    I morti viventi di Zombi ritornano al centro commerciale allo stesso modo in cui lo facevano da vivi: non è la fame di carne umana che li spinge, bensì la memoria del bisogno indotto del consumismo. Analogamente, il morto Bub del Giorno degli zombi perpetua un saluto militare perché parte dell’addestramento ricevuto quando era un soldato (e si “offende” quando non riceve risposta, quasi fosse una mancata gratificazione dell’ordine ben eseguito).

    Il giorno degli zombi

    Gli zombi divorano o contagiano i vivi senza alcun altro apparente scopo che l’istinto: ciò che mangiano non può nutrirli (almeno nella visione di Romero, ripresa e condivisa da altri registi epigoni); pur senza essere un conscio obiettivo, un mondo di zombi è in tendenza l’unico possibile risultato del loro comportamento. Il contagio rappresenta un desiderio inconscio di massificazione della società, il voler rendere tutto uguale annullando ogni sentimento o aspirazione che non siano quelli, privati di ogni senso, della maggioranza: la democrazia passa dal rappresentare le differenze a imporre l’omologazione proprio facendo scomparire ogni differenza. Gli zombi non combattono l’avversario: lo assimilano per annullarlo o renderlo uguale a loro. Spetta ai sopravvissuti la lotta per difendere il proprio diritto all’individualità, al pensiero libero, all’anticonformismo, a non diventare a loro volta parte della massa; facendolo si trovano ad affrontare i problemi di leadership, di scegliere chi deve guidare il gruppo e prendere le necessarie decisioni, di eleggere dei capi. La sopravvivenza diventa da difesa della carne a difesa del libero pensiero e, conseguentemente, della possibilità del cambiamento.

    Proprio nell’ineluttabile destino di diventare e far diventare maggioranza risiede parte dell’orrenda suggestione del morto vivente: la paura che una massa incapace di autogovernarsi determini le nostre decisioni e potenzialmente ci assimili; ancor peggio, il fantasma della democrazia zombi, in un mondo in cui i concetti di democrazia e maggioranza sono divenuti indistinti, non è tanto il pensiero unico quanto l’impossibilità di ogni unico pensiero.

  • Morti fuori e morti dentro

    La notte dei morti viventi

    Quelli sui morti viventi sono tipicamente film di assedio; seguendo il modello classico del cinema, l’azione vede la contrapposizione di due gruppi principali: i vivi, asserragliati in un luogo chiuso, e i morti, che occupano il mondo esterno. La sopravvivenza dei primi dipende dalla resistenza della barricata e, viceversa, la sua fragilità determina il successo dei secondi.

    Di conseguenza la scena si riduce spesso a un unico spazio chiuso, quasi teatrale, un territorio da difendere, circondato da barriere anti-zombi, dai tratti caratteristici e a volte simbolici. Nella Notte dei morti viventi è un’abitazione di campagna; in Zombi un ipermercato di periferia; nel Giorno degli zombi una base militare sotterranea; in Dead Set la casa televisiva di Big Brother; in The Horde un palazzo della banlieue parigina; in World War Z l’intera città di Gerusalemme, circondata da un altissimo muro. Anche The Walking Dead, opera tutto sommato classificabile come on the road, è un susseguirsi di assedi intervallati da fughe, nella eterna ricerca di nuovi posti che possano offrire una almeno temporanea salvezza. I morti non inseguono: convergono, come un fenomeno naturale o una osmosi chimica che porta a livello di entropia la pulsione di morte.

    The Horde

    Per quanto protetto, l’interno è forzatamente un riparo transitorio e non destinato a durare: nessuna barriera può resistere per sempre agli assedianti e la conseguenza prima di ogni assedio è l’esaurimento delle scorte che garantiscono la sopravvivenza. Inoltre, la rivalità tra gli assediati, spesso in disaccordo sulle strategie da adottare per la sopravvivenza del gruppo, rende ulteriormente insicuro lo spazio chiuso, diventando a volte un nemico ben più temibile degli zombi. Nella Notte dei morti viventi la discussione su quale sia il luogo più sicuro della casa è fonte di continui scontri tra i protagonisti. In genere si assiste a una divisione dei vivi tra quanti vogliono continuare a restare all’interno, rafforzando continuamente le difese, e quanti vogliono invece tentare una sortita per cercare un rifugio migliore. I morti si accumulano fuori e dentro la casa.

    Le comunicazioni dall’esterno, quando ancora esistono, contribuiscono all’incertezza e alla confusione: se da un lato radio e tv raccontano il carattere globale della catastrofe, invitando a rimanere al chiuso, dall’altro indicano zone protette (per lo più illusoriamente) dove la popolazione può cercare rifugio.

    Il giorno degli zombi

    Con il pericolo che si annida contemporaneamente all’esterno e all’interno, due tipi di paura convivono in questi film: agorafobia, dato che trovarsi all’esterno in mezzo ai morti viventi non è un’esperienza consigliabile, e claustrofobia, con le mani degli zombi che battono su vetri e porte sbarrate e i vivi che, costretti in spazi sempre più angusti e inospitali, ingannano l’attesa scannandosi tra loro. Nonostante il confine tracciato, l’incertezza accomuna entrambi le zone; spesso tutte le soluzioni possibili, mantenere l’assedio o tentare la fuga, si rivelano letali, contribuendo alla tensione e al continuo spiazzamento dello spettatore, lasciato senza speranza come i malcapitati personaggi.

  • Lo zombi come consumatore finale

    Zombi

    Caratteristica dei morti viventi è la cristallizzazione dei gesti di ogni giorno, ripetuti insensatamente e senza alcuno scopo all’infinito. Dopo la condanna della società punitiva della Notte dei morti viventi, con Zombi George A. Romero inaugura una serie di caricature dell’umanità capitalista: i cadaveri ambulanti tornano al centro commerciale perché rappresentava un punto di riferimento importante della loro vita: la spinta al consumo è così forte che anche dopo la morte rimane motore istintuale. Le mani che premono sulle porte a vetri chiuse sono quelle di consumatori che chiedono di essere ammessi al loro paradiso.

    Elemento fondamentale del perturbante dei morti viventi romeriani è l’inutilità dei loro atti, l’assenza di qualunque volontà, il non perseguire il bene o il male, il loro non progredire verso alcun obiettivo che non sia una sazietà irraggiungibile perché ciò che mangiano non può sfamarli; al tempo stesso la loro unica mira sembra una scelta cosciente di massa, un tentativo di annichilire vita e morte facendo scomparire i vivi ingurgitandoli o riducendoli a loro volta in nuovi morti viventi.

    Zombi

    Per i quattro rifugiati che si barricano nell’ipermercato questo costituisce un’oasi di salvezza ma anche la realizzazione del sogno consumistico attraverso il saccheggio, saccheggio che va oltre la semplice necessità di sopravvivenza e che contribuisce al raggiungimento di una vita agiata secondo gli standard capitalisti dell’omologazione a un modello di esibizione del benessere. Il deposito delle merci è diventato la nuova frontiera da conquistare e difendere come propria, il neo-Far West che contraddistingue il cinema post-apocalittico ma ridotto allo spazio dei prodotti. Al contempo, la banda dei teppisti in motocicletta transita immutata nelle abitudini dal vecchio al nuovo mondo: il vivere alla giornata e l’indifferenza alla proprietà non rappresentano per loro un cambiamento.

    Zombi

    Gli zombi si ritrovano a indossare i loro ultimi abiti da vivi; privi di ricordi consci e in definitiva di identità, la loro unica distinzione diviene per sempre il loro aspetto; i vestiti sono l’unico mezzo per tentare di ricostruire ciò che sono stati. Per il resto sono accomunati nel destino e nella fame, metafora dell’eredità estrema della società: gli zombi non sono cannibali, in quanto non si divorano tra loro; è la società nel suo insieme ad autocannibalizzarsi. Non è una necessità che spinge i morti a cibarsi dei vivi ma il tentativo di obbedire al dogma di un consumismo portato all’estremo.

    Si tratta di un consumismo terminale, in cui non esiste più produzione: zombi e sopravvissuti non creano più, si limitano a divorare l’esistente.  I morti viventi sono la sintesi ultima, i consumatori finali: l’umanità si autodivora senza alcuno scopo, verso un’entropia che unisce vita e morte, consumatori e consumati.

  • Il giorno degli zombi come apocalisse laica

    La notte dei morti viventi

    La risurrezione è un tema che rientra per tradizione nell’esclusivo dominio della religione cristiana; è evidente quindi la carica eversiva del cinema nell’appropriarsi del giorno in cui i morti risorgeranno trasformandolo in un’apocalisse sostanzialmente laica. Non a caso, l’orrore in La notte dei morti viventi comincia in un cimitero, privato del suo ruolo rituale di luogo dell’eterno riposo.

    Nei film sugli zombi nulla di ciò che viene promesso dalla religione viene mantenuto, se non la pura “riesumazione alla vita” della carne. Ma questa rimane appunto carne, per giunta allo stadio della morte o della putrefazione; non c’è in genere alcuna parvenza di anima: a guidare gli zombi è solo una specie di istinto primordiale che li porta a divorare i viventi e a ripetere all’infinito gli stessi gesti di quando erano vivi.

    World War Z

    Per quanto alcuni sopravvissuti tentino di attribuire un’origine mistica agli avvenimenti (una famosa battuta di Zombi recita: “quando non ci sarà più posto all’Inferno, i morti cammineranno sulla terra”), le spiegazioni, quando possibili, sono quasi sempre scientifiche, dalle radiazioni della sonda venusiana della Notte dei morti viventi al virus di World War Z. Non solo: se per difendersi da fantasmi e vampiri sono possibili protezioni di origine pseudoreligiosa come croci ed esorcismi, per gli zombi esistono solo le armi, proprie o improprie, con cui colpirli, (possibilmente in testa, perché solo il livello istintivo del cervello funziona).

    Il giorno degli zombi

    L’assenza del divino e la conseguente implicita negazione di ogni speranza di una vita ultraterrena rafforzano il senso di “fine del mondo” atea, senza alcuna ipotesi consolatoria di origine religiosa: gli unici modi di sfuggire a un’esistenza di eterna non-morte sono restare vivi o assicurarsi di morire definitivamente; non a caso le promesse che si fanno tra loro i protagonisti di questi film sono garanzie di morte: un colpo in testa garantisce di non tornare come zombi. La pietà verso gli uomini non è soccorrere ma uccidere. La religione, con il suo rispetto per i morti, diventa addirittura un ostacolo alla salvezza, impedendo di oltraggiare i cadaveri dando loro il colpo di grazia.

  • Dead Set, o la televisione dei morti viventi

    Dead Set

    Nel 2008, a dieci anni dalla nascita dello show televisivo Big Brother, in Gran Bretagna esce Dead Set, miniserie horror scritta dal giornalista e umorista Charlie Brooker.
    Dead Set è una zombie apocalypse ambientata quasi completamente nella casa di Big Brother; la serie è stata trasmessa per la prima volta da Channel 4, la stessa emittente che mandava in onda il Grande Fratello inglese, e ha visto l’autoironica partecipazione di alcuni dei protagonisti dello show originale. La trama segue l’impianto classico del genere, con la rapida diffusione dell’epidemia che provoca la trasformazione della popolazione in morti viventi (nella fattispecie quelli che corrono) e il successivo assedio dei pochi superstiti in uno spazio ristretto, appunto la casa di Big Brother.
    Apparentemente nulla di nuovo se non fosse appunto per l’ambientazione, che trasforma il film di genere in una spietata satira della reality tv e del suo pubblico, e per la forte carica di violenza splatter, insolita per un prodotto televisivo, che fa schizzare sangue e frattaglie su pavimenti, pareti e obiettivi delle telecamere.

    Dead Set
    Se nel ciclo degli Zombi di George A. Romero i morti viventi sono una metafora della società (di volta in volta punitrice, consumista, militarizzata), qui diventano incarnazione del pubblico televisivo, inconsapevole complice della sua stessa compiaciuta ed entusiastica autocannibalizzazione; un pubblico ridotto a massa per cui la televisione produce e manda in onda una programmazione tagliata sul minimo comune denominatore, a incontrare il gusto della maggioranza; un pubblico che prova al tempo stesso piacere e disgusto a osservare, partecipare e in definitiva a osservarsi.
    A poco o nulla valgono i tentativi di resistere dei superstiti, dalle barricate nella casa fino alla cinica trovata del produttore di usare gli stessi corpi smembrati dei protagonisti dello show come succulenta esca per gli zombi, così come del resto faceva con loro quando erano vivi, dandoli in pasto ai telespettatori affamati della loro vita.

    Dead Set
    Il finale trova i morti viventi a fissare le telecamere ormai inutili del programma, con l’immagine che si replica all’infinito per l’eternità, con l’occhio, che è anche il logo di Big Brother, osservatore e osservato e la quotidianità dello show che diventa quotidianità della vita e ne decreta definitivamente la morte.

  • Morti che camminano e morti che corrono

    L'alba dei morti viventi
    I morti che corrono non mi piacciono. Non che abbia qualcosa in contrario a una efficiente deambulazione dei defunti, ma per me gli zombi che camminano strascicando i piedi sono migliori. C’è qualcosa di inquietante e definitivamente simbolico nel contrasto tra la facilità con cui si può abbattere un nemico lento, impacciato e rimbecillito rispetto all’essere letale di una massa di individui del genere.
    Detto questo, L’alba dei morti viventi di Zack Snyder è un buon film. Sfugge dal facile schema del remake riproponendo sì la medesima ambientazione dell’originale (il centro commerciale) ma costruendo un suo percorso, meno politico e splatter e più ironico, fracassone e forse ancor più pessimista dell’originale Zombi di George A. Romero.
    L'alba dei morti viventi
    Gli stereotipi del genere ci sono tutti, dallo stato di assedio alle lotte all’interno del gruppo di assediati, dal mondo apocalittico ai pasti a base di carne umana. L’apporto di Snyder sta nelle situazioni della quotidianità, come il dialogo a base di cartelli con un sopravvissuto isolato, e nella regia nervosa, nella visione globale dell’apocalisse, nell’immagine piena di disturbi elettronici che rende l’attualità del mezzo del racconto, mass-mediale e continuamente rimediante, con visioni pop tra reportage, videoclip e fumetto.
    Le citazioni per l’appassionato cinefilo si sprecano (il bagno da Shining e il predicatore televisivo da Zombi, tanto per citarne un paio); la musica diegetica del centro commerciale fa spesso da contrasto ironico e divertito all’azione.
    Peccato per i personaggi, che incarnano ruoli poco sviluppati, e per alcune scene imbarazzanti e gratuite. La carica sovversiva e underground si perde e il morto vivente passa da metafora della società a puro oggetto scenico di un action movie e corre come gli zombi di 28 giorni dopo di Danny Boyle.

  • H.R. Giger, l’alieno biomeccanoide

    Ripubblico qui un articolo che scrissi ormai quasi vent’anni fa per la rivista Betarelease. H.R. Giger se n’è andato dopo aver popolato il nostro immaginario di meravigliosi mostri.

    Siamo tutti insettoidi estranei, nascosti nei nostri corpi urbanoidi. I quadri di Giger che mostrano la carne, i suoi paesaggi al microscopio, sono segnali di una mutazione.
    Timothy Leary

    Se Alien di Ridley Scott è diventato uno dei maggiori successi della fantascienza cinematografica, molto è dovuto a Hans Ruedi Giger, che ne ha disegnato le scenografie e ha progettato l’insidioso parassita extraterrestre che divora i membri dell’equipaggio dell’astronave Nostromo.

    Alien

    Nato nel 1940 in Svizzera, Giger è un artista quanto mai eclettico: oltre che ad Alien, ha lavorato a molti altri film di fantascienza. Ma è soprattutto pittore e scultore. Titoli di opere come Biomeccanoidi o Erotomechanics riflettono bene una estetica del metallo che si stempera nella carne, dell’arto che si prolunga nella simulazione bionica, di se stesso o di qualcos’altro.

    Nei quadri di Giger, lo sfondo si ibrida spesso con i soggetti ritratti, inglobandoli e nutrendosene. E a volte sono gli stessi soggetti a costituire lo sfondo dell’opera, come nella serie dei Paesaggi biomeccanici. Ossa ed eso-endoscheletri al titanio, carne e membrane elastiche, tubi e vene emergono indifferenziati a costituire corpi-macchina, corridoi di nervi e muscoli, cyborg torturati, organi sessuali per travasamenti in serie che sembrano usciti dal Mondo nuovo di Huxley.

    Li II

    Le tele gigantesche spruzzate con l’aerografo sono veri e propri ipertesti che illustrano la “trasmigrazione biomeccanica dell’anima” (titolo di un quadro di Giger), la mutazione dei nostri corpi e dei nostri strumenti in una nuova entità. Come un cancro creatore, il metallo degli oggetti di cui ci circondiamo si insinua sotto la pelle e ci modifica, arricchendo i nostri corpi di nuovi, infiniti sensi.

    The Spell I

    Le strutture raffigurate nelle opere di Giger sembrano parti di immense macchine, di cui gli esseri viventi sono parte integrante. E l’artista non sembra essere attratto tanto dalla funzione della macchina, quanto dalla sua fattibilità, almeno artistica. Ma la visione, pur in apparenza da incubo, non è da vedersi in chiave pessimistica, come profezia di una tecnologia che asserve l’uomo. Come ha scritto Timothy Leary, “… in queste opere ci vediamo come embrioni striscianti, come creature fetali, larvali, protette dall’involucro dei nostri ego, in attesa del momento della metamorfosi e della rinascita… Giger ci dà il coraggio di salutare il nostro io insettoide”.

    Cronologia di una mutazione

    1940 – Nasce a Chur, Svizzera.
    1960 – Costruisce la Camera nera.
    1964 – Realizza gli Atomkinder.
    1966 – Termina la scuola di artigianato e allestisce la prima mostra personale a Zurigo.
    1969 – Vengono stampati i primi poster da opere di Giger, tra cui Biomeccanoidi 1969.
    1971 – Viene pubblicato ARH+, il primo catalogo delle sue opere.
    1973 – Disegna la copertina del disco Brain salad surgery di Emerson, Lake & Palmer.
    1976 – Lavora al progetto del film Dune.
    1977 – Comincia a lavorare ad Alien.
    1979Alien viene presentato al pubblico a Hollywood. Davanti al cinema troneggia un’enorme quadro di Giger realizzato per il film.
    1980 – Giger riceve l’Oscar per gli effetti speciali di Alien.
    1981 – Dipinge la serie di quadri N.Y. City.
    1983 – Viene invitato come ospite d’onore ai festival del cinema fantastico di Bruxelles e Madrid.
    1985 – Realizza varie scene per Poltergeist II.
    1986 – La rete televisiva tedesca ZDF realizza un documentario dal titolo L’universo fantastico di H.R. Giger.
    1987 – Mostra di opere di Giger in Giappone, alcune delle quali appositamente ralizzate. Nasce Biomechanoid 87, il fanclub giapponese dedicato a Giger.
    1988 – A Tokyo viene realizzato il primo Bar Giger.
    1990 – Lavora ad Alien III.
    1995 – Lavora al film Specie mortale.
    1996Visioni di fine millennio: mostra di opere di Giger a Milano.

    Gigerjargon

    Alien – Film di fantascienza diretto da Ridley Scott nel 1979. Giger realizzò scenografie e il costume dell’alieno, di cui Carlo Rambaldi mise a punto i movimenti meccanici.
    Atomkinder – Bambini atomici. Serie di disegni a china apparsi su varie riviste scolastiche.
    Camera nera – Sorta di “tunnel dell’orrore”, con scheletri e mostri vari animati da Giger e dai suoi amici, per il “divertimento” dei visitatori
    Dune – Progetto per un film di fantascienza tratto dalla omonima saga letteraria di Frank Herbert. Giger realizzò dipinti e disegni preparatori. Il progetto venne poi abbandonato dal regista Alexandro Jodorowsky per mancanza di finanziatori. Il film venne in seguito realizzato da David Lynch, senza H.R. Giger.
    Poltergeist II – Film dell’orrore diretto nel 1986 da Brian Gibson, seguito del primo Poltergeist di Tobe Hooper. Nonostante il discreto successo, Giger si dichiarò insoddisfatto della realizzazione visuale dei suoi progetti.
    Specie mortale – Film di fantascienza di Roger Donaldson, per il quale Giger crea l’aliena Sil.

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