Storia di un fantasma e dell’ineluttabile lentezza del tempo

C’è una lunga scena in Storia di un fantasma, una inquadratura fissa di quasi cinque minuti senza stacchi, in cui una ragazza disperata mangia un dolce sotto l’impotente sguardo del fantasma del fidanzato appena deceduto; è una scena straziante, quasi insostenibile per lo spettatore: l’immagine dilatata di un lutto a cui siamo costretti ad assistere, insieme al fantasma del protagonista, senza poter intervenire.

Nonostante il titolo, non si tratta di un film horror. Come il racconto di Virginia Woolf citato nei titoli di apertura, Storia di un fantasma è una storia d’amore, la delicata cronaca di un amore terminato e reso impossibile dalla morte del protagonista, che torna come uno spettro condannato a restare per sempre nel luogo in cui viveva e a osservare impotente lo scorrere degli eventi, in attesa di qualcosa che ancora non conosce.

Il film parla del tempo che scorre, del suo ritorno ciclico; con il suo ritmo lento, dilatato fino a rasentare l’immobilità, comunica l’eternità di ogni attimo; l’infinita attesa diviene l’espressione di un amore che non finisce con la morte, rende concreto l’affetto di qualcuno che non può più comunicare ma che resta vicino alla sua amata e resterà ad aspettarla anche quando lei se ne sarà andata per lasciarsi il dolore alle spalle.

L’iconografia del fantasma è ironica nel suo essere archetipo: nessun effetto speciale visibile, solo un lenzuolo da Halloween con neri buchi per gli occhi, metafora della visione come unica possibilità. Il fantasma non ha volto o espressività, la sua identità è affidata al nostro ricordo; non può parlare, e il film ne esce quasi muto per buona parte, può intervenire nel mondo solo con le azioni canoniche da fantasma, come far cadere oggetti o accendere e spegnere lampadine. I dialoghi sono affidati ai casuali ospiti della casa, come il lungo monologo nichilista sul senso della vita in un universo destinato a scomparire pronunciato dal partecipante a una festa.

Il regista David Lowery costringe l’immagine in un 4:3 con i bordi arrotondati, che comunica la limitazione dello spazio accessibile e al tempo stesso uno sguardo intimo, come se si stessero guardando vecchie foto di famiglia. Il fantasma osserva ed è osservato; arriva anche, in un paradosso temporale, a contemplare se stesso vivo e nuovamente (o eternamente?) fantasma, in un susseguirsi ciclico e apparentemente senza via d’uscita, fino alla comprensione e accettazione del suo destino.


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