Dune: le sabbie della distruzione

Dune è uno di quei film che spingono per natura al confronto con il libro da cui sono tratti, inevitabilmente socntrandosi con la classica questione della lettura personale: ogni lettore ha un proprio Dune personale, una visione soggettiva e giocoforza parziale del romanzo. Qualunque trasposizione cinematografica non può raggiungere la perfezione per tutti proprio perché infinite sono le interpretazioni personali della scrittura.

Denis Villeneuve ha fatto di Dune il suo Dune, nello stile a cui siamo ormai abituati con Arrival e Blade Runner 2049: immagini potenti, livelli di lettura a diverse profondità, obiettivo puntato sui sentimenti dei personaggi. I temi più politici e sociali di Frank Herbert sono lasciati sullo sfondo: l’ecosistema del pianeta, le complesse lotte per il controllo della galassia, i sottili giochi di alleanze tra le potentissime corporazioni, il misticismo e l’attesa del salvifico messia sono appena accennati o non sembrano avere grande influenza sullo sviluppo quanto invece il percorso di crescita del protagonista e la rappresentazione visiva che costituisce il vero oggetto della messa in scena.

Il giovanissimo Paul Atreides è, in questa prima parte, un giovane erede di un ducato distrutto e il frutto di centinaia di anni di pazienti tessiture genetiche, sociali e religiose volte a fare di lui una specie di profeta e leader spirituale; è un profeta e leader riluttante, che dubita di se stesso e non vuole accettare il ruolo che una Storia più grande di lui vorrebbe fargli incarnare, tormentato da visioni che gli rinfacciano un futuro già scritto da decine di generazioni, senza libero arbitrio o diritto di scelta, con poteri che non vuole e che lo trasformano ogni giorno di più in un predestinato. Ogni evento è per lui un déjà vu, che gli propone il presente come un continuo flashback da un futuro a cui non vuole arrivare. La circolarità del tempo, già benedizione e maledizione in Arrival, suggerisce continuamente soluzioni che permettono di superare le difficoltà ma conducono verso un ineluttabile percorso di morte e distruzione.

Il mondo di Dune è un nuovo medioevo, in cui i computer non esistono più perché considerati inaffidabili; le macchine sono quasi pura meccanica. Nel film tutto ciò priva i set della tecnologia, in genere onnipresente nella fantascienza, lasciando scenografie spoglie in cui emergono solo pochi oggetti essenziali. Tutto è sproporzionato e disumano: le distanze spaziali sono inimmaginabili, i palazzi giganteschi, le stanze altissime e buie, il deserto del pianeta Arrakis una ignota distesa di infinite possibilità attraversato da vermi lunghi centinaia di metri. Le astronavi non hanno nulla di aerodinamico e sono piuttosto monumenti usciti da un incrocio tra gli oggetti surreali di René Magritte e i monoliti di Stanley Kubrick, residui di civiltà antiche al pari delle piramidi egizie. Gli edifici sono disumani blocchi di cemento che, per difendere gli abitanti dallo spaventoso calore del pianeta, offrono alla luce solo poche feritoie.

Il raffinato production design di Villeneuve non concede sfumature in un mondo rigorosamente in bianco e nero, che non lascia spazio ad altro colore che a quello della preziosa spezia: su Arrakis la luce è morte e l’oscurità è vita; ma è invece proprio nell’oscurità che gli Atreides trovano la morte per mano dei loro spietati nemici, Harkonnen e Sardaukar imperiali, che a loro volta fanno del nero il loro tratto distintivo.

Gli spaventosi vermi delle sabbie sono quasi invisibili, più forze della natura che creature viventi, rappresentati come onde di tempesta sabbiosa o terrificanti voragini che si aprono all’improvviso inghiottendo indifferentemente qualsiasi cosa. I loro passaggio segna la morte ma ancora di più l’annullamento dell’umano e dei suoi sforzi vitali. La sabbia è la vera protagonista, unheimlich che non concede scampo e tutto occupa, sguardo dello spettatore compreso. Dune è un viaggio iniziatico e terminale verso l’annientamento di ciò che rimane della civiltà dell’immagine e dei suoi feticci, in cui paradossalmente la forma del sabbioso nulla è in sé l’unico contenuto.


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