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  • Max Headroom, venti minuti nel futuro

    Max Headroom, venti minuti nel futuro

    A più di trent’anni dalla sua creazione fa uno strano effetto pensare a quel curioso personaggio che fu Max Headroom; il suo successo non è mai stato replicato e il suo modello non è più stato riproposto in un mondo ormai invaso da idoli che sembrano esistere solo nello spazio televisivo, il che è bizzarro per un personaggio nato appunto come pura essenza tv.

    Nel 1985 Max viene presentato come “il primo conduttore TV generato al computer”. In realtà, l’intervento del computer è minimo, data la complessità per la tecnologia CG dell’epoca di generare un intero personaggio in tempo reale; l’immagine di Max è quella dell’attore Matt Frewer, pesantemente truccato e con indosso una lucida giacca in fibra di vetro, sovraimpressa a uno sfondo in chroma key; la ripresa è poi distorta con effetti decisamente analogici come disturbi elettronici e montaggio frenetico per dare l’idea di generazione in qualche modo approssimativa e sottoposta a errori.

    Max Headroom

    La prima apparizione di Max Headroom avviene in un breve film per la tv britannica Channel 4, Max Headroom: 20 Minutes into the Future, forse la prima storia cyberpunk concepita per la televisione. La trama di 20 Minutes riguarda l’indagine di Edison Carter, un reporter d’assalto che svela un progetto segreto per trasmettere i Blipverts, pubblicità così potenti e compresse da essere in grado di fare letteralmente esplodere gli spettatori. Carter viene catturato dai cattivi di turno, guidati dal perfido direttore del Network 23, il canale tv per cui lo stesso Carter lavora, e la sua memoria copiata in un computer. Successivamente Carter riesce a fuggire ai suoi sequestratori; parallelamente, anche il suo doppione digitale in qualche modo “evade” e, grazie a un piccolo canale televisivo, diventa autocosciente e libero di muoversi per l’etere.

    Max Headroom

    Il sorprendente inizio del film è interamente composto da sequenze già girate con un altro mezzo: la prima ripresa sui titoli è una dissolvenza atttraverso l’effetto neve di un televisore; la storia viene raccontata esclusivamente con l’uso della telecamera che riprende in diretta la soggettiva del protagonista oppure da spezzoni di video di sicurezza a circuito chiuso, videotelefoni, rendering computerizzati di mappe di città ed edifici. Ciò che viene mostrato nei primi minuti è una ripresa di seconda mano, materiale di riciclo e scarto recuperato, in un’assenza di materiale “puro”.

    Max Headroom

    Scarto è anche il desolante panorama della città del futuro, una immensa periferia cosparsa di macerie abitate da un’umanità che pare sopravvissuta a un disastro e da cui si ergono mucchi di televisori inspiegabilmente accesi e funzionanti. I rifiuti e i detriti sono ovunque, anche a ridosso delle banche dei corpi, depositi semiclandestini dove i cadaveri sono venduti e smembrati per il mercato dei trapianti.

    Max Headroom

    Bryce Lynch, il consulente al servizio del Network 23, è un giovane hacker, inventore dei Blipverts e di personaggi generati al computer; è lui che ricostruisce l’alter ego digitale di Carter, che poi evolve in Max Headroom, partendo da una scansione della sua memoria. Ed è un duello tra hacker, Bryce e Theora, guida di Carter, quello che avviene elettronicamente tra i corridoi dell’emittente televisiva, spostando da remoto ascensori, aprendo o chiudendo porte, controllando le videocamere, cercando di contrastare o aiutare l’opera del giornalista tv.

    Max Headroom

    Hacker, o quanto meno “smanettone” è anche Blank Reg, il gestore di una piccola rete televisiva in cui il cassone elettronico che contiene l’essenza di Max viene recuperato e ospitato e la cui sede ambulante è un camion; Blank è anche un pirata anagrafico, non essendo registrato negli onnipotenti computer governativi.

    Max Headroom

    Il vero protagonista paradossalmente si mostra molto poco ma le sue apparizioni sono fulminanti: Max Headroom compare sullo schermo del televisore, ha una parlantina rapida e caustica e, anche se in preda a una specie di balbuzie digitale, fa battute a raffica; la sua immagine è disturbata, interrotta, si blocca in piccoli loop, accelera o rallenta inaspettatamente; sembra il figlio del difetto, un postumano nato da un guasto elettronico più che un idolo voluto e creato, la smagliatura di un mondo, quello televisivo, che dovrebbe apparire lucido e perfetto ma che sotto una superficie visivamente attraente mostra la realtà dell’imperfezione o dell’orrore. Con il suo essere interferenza, segnale di intromissione, Max rivendica uno spazio libero del palinsensto e una sua estetica, il gusto per il disturbo visivo e dialettico.

    Dopo il film, il personaggio Max Headroom gode di un breve ma intenso periodo di successo internazionale, in cui il nostro si esibisce come veejay, ironico commentatore degli avvenimenti, intervistando star della musica, del cinema e della tv, e finendo per essere a sua volta intervistato come ospite al David Letterman Show, a cui ovviamente partecipa attraverso un televisore. Al primo film segue una serie tv, poi interrotta a causa del confronto diretto con colossi come Dallas e Miami Vice. Max appare poi, direttamente o citato, in vari film e videoclip.

    Nel 1987 Max Headroom è anche involontario e indiretto protagonista di un episodio di hacking televisivo, soprannominato appunto Interferenza di Max Headroom, in cui alcuni ignoti riescono a inserirsi nelle trasmissioni di due emittenti di Chicago, interrompendole per qualche minuto con una sequenza in cui uno di loro, travestito da un fin troppo irriverente Max, recita frasi apparentemente senza senso e conclude facendosi sculacciare.

  • L’onda digitale della catastrofe

    2012

    Dopo una lunga e quasi ininterrotta pausa, è grazie alla computer graphic che i disaster movie tornano nuovamente ai fasti degli anni ’70.

    Il banco di prova tecnologico è Jurassic Park di Steven Spielberg. Partito con l’idea di realizzare i suoi dinosauri con tecniche tradizionali (stop motion e animatroni), il regista si convince a passare a una nuova tecnologia dopo una efficace dimostrazione dei tecnici della ILM, che realizzano creature completamente digitali con livelli di dettagli e realismo mai raggiunti prima.

    Il primo vero film catastrofico dell’era digitale è Twister, che porta sullo schermo, complice ancora la ILM, una serie di convincenti e spettacolari tornado (e purtroppo non molto altro, a causa soprattutto di una sceneggiatura debole e personaggi male abbozzati); le spaventose trombe d’aria che devastano l’Oklahoma intrattengono un pubblico che si scopre di nuovo affamato di disastri da contemplare senza pensieri.

    Il titolo di re della nuova onda digitale della catastrofe spetta però a Roland Emmerich, che dal 1996 in poi porta al cinema rappresentazioni di disastri sempre più devastanti: Independence Day, l’ennesimo Godzilla (remake però del Risveglio del dinosauro), The Day After Tomorrow e 2012 sono solo alcuni dei successi di un regista il cui principale interesse sembra essere quello di stupire e ammaliare il pubblico con uno spettacolo di pura distruzione che si fa via via sempre più planetaria e biblica.

    Rispuntano anche le care vecchie meteore, principalmente con Armageddon di Michael Bay e Deep Impact di Mimi Leder; usciti nella stessa estate del 1998, i due film possono contare rispettivamente sulle spacconate del trivellatore Bruce Willis e sugli accorati appelli del Presidente USA Morgan Freeman, oltre naturalmente a una buona dose di computer graphics.

    Caratteristica che emerge sempre di più in queste pellicole è la voglia di intrattenere senza pensieri il pubblico, limitando al minimo riflessioni sulla trama ed empatia con i personaggi e spostando l’attenzione esclusivamente al livello visuale: il digitale è qui per divertirci, pare essere il messaggio e i trailer di questi film sembrano i demo cinematici dei videogame. Certo emerge una buona dose di apocalittico millenarismo, specie in The Day After Tomorrow e 2012, che fa pensare a una preoccupazione ormai condivisa nell’immaginario collettivo per i disastri naturali e i cambiamenti climatici (e per inesistenti profezie di popoli antichi, astutamente utilizzate come richiamo commerciale); ad attirare gli spettatori contribuisce certamente anche un bisogno catartico; ma ciò che appare più evidente è la volontà voyeuristica di apprezzare la catastrofe fin nei minimi dettagli, ad “alta risoluzione”, di contemplare le meravigliose e apparentemente infinite possibilità del digitale.

  • Attraverso lo schermo: Tron

    Una scena da "Tron".

    Trent’anni fa usciva nelle sale cinematografiche Tron, film che, pur nella sua ingenuità, rompeva per la prima volta la sottile barriera dello schermo del computer per trasportare il protagonista (e con lui lo spettatore) nel mondo digitale dei videogiochi.

    Eliminando in modo forse un po’ infantile ogni tipo di interfaccia, il gioco scomponeva il corpo dell’incauto Flynn/Jeff Bridges e lo rigenerava all’interno del ciberspazio videoludico; hic et nunc totale, dunque, senza ambiguità identitarie: il mondo del videogioco è reale tanto quanto basta a ospitare una vita ricreata; non ci si collega ma ci si teletrasporta. La carne cessa di esistere e diventa informazione, insieme di bit descrittivo di una nuova forma. Il mondo di Tron esiste e non è per nulla virtuale. Il nuovo corpo non è una estensione della carne ma una sua transustanziazione. Non si indossa un avatar ma lo si diventa.

    Anche se costretto in una superficialità da giocattolone disneyano per adolescenti, Tron ha sfondato lo specchio prima e più dei vari Tagliarbe o Matrix, rendendo possibli vite che si muovono nella dimensione digitale come le I.A. e i costrutti gibsoniani, con una resa visiva primitiva ma dotata di uno stile grafico insuperato, con scene astratte e surreali che sembrano uscite dai disegni di Karel Thole.

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