Spaghetti cyberpunk: Nirvana

Nirvana

Fare fantascienza in Italia non è mai stato facile, non per la carenza di idee (anzi, basta vedere le geniali invenzioni di Mario Bava e Antonio Margheriti) ma per quella di fondi: nessun produttore ha mai avuto il coraggio o i capitali necessari per un genere che richiedeva grosso impegno e non garantiva facili risultati.

Anche per questo va ricordato Nirvana; non certo il miglior film di Gabriele Salvatores ma comunque uno di quelli di maggior successo e per giunta di genere fantascientifico.

La trama in breve: in un prossimo futuro, il personaggio di un videogioco ancora in fase di sviluppo diviene d’un tratto autocosciente; insoddisfatto, anzi schifato, della sua condizione, chiede al creatore del gioco di porre fine alla sua esistenza, cancellandolo. Da questo punto la storia si divide tra le disavventure tragicomiche del personaggio che tenta di rompere la logica del gioco e quelle del programmatore, nei suoi tentativi di infiltrarsi nel sistema dell’azienda produttrice del gioco per cancellarlo prima che venga commercializzato.

Nirvana

Al di là della divertente galleria di personaggi tipici di Salvatores (da Diego Abatantuono a Claudio Bisio, a Silvio Orlando, passando per un cameo di Paolo Rossi), dalla recitazione quasi sempre sopra le righe, Nirvana è una vera antologia di situazioni e atmosfere cyberpunk: incursioni nel ciberspazio, realtà virtuali, antieroi hardboiled, protesi oculari, urbanesimo in decomposizione. Il frequentatore dei racconti di Gibson e Sterling si diverte a trovare le innumerevoli citazioni letterarie del genere. Anche il set è postindustriale e sfrutta la location di un vecchio stabilimento Alfa Romeo.

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Come nello spaghetti western, le situazioni e i luoghi comuni del genere sono portati all’eccesso e divengono spesso caricature degli archetipi da cui traggono ispirazione; l’inseguimento nel quartiere di Bombay City è a metà strada tra la violenza e la commedia; la cruenta operazione agli occhi di Sergio Rubini è talmente eccessiva da strappare una risata; i luoghi, reali o virtuali, sono pure visioni psichedeliche, metafore di un melting pot sociale e di un immaginario culturale in trasformazione. All’atmosfera contribuisce la splendida colonna sonora di Mauro Pagani.

Ciò che manca a Nirvana non sono dunque gli ingredienti, ottimi e abbondanti, ma la ricetta: il film opera per accumulo di situazioni e di suggestioni senza riuscire a trovare una chiara direzione. I dialoghi a volte sono troppo didascalici e tolgono fliudità alla storia. Non aiuta un Christopher Lambert dallo sguardo vuoto e inespressivo. Si rimbalza da una gag all’altra con la sensazione di non andare da alcuna parte.

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Ma forse è proprio questo disorientamento la chiave del film: un mondo dominato da una tecnologia pervasiva, impalpabile e al tempo stesso tremendamente fisica; una società in mutazione; una crisi di valori tradizionali e un’incerta ricerca di nuovi riferimenti; un cinema italiano che cerca di reinventarsi, sospeso tra la commedia e la sperimentazione, e che forse è già in parte videogioco.


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