Tag: catastrofe

  • Perché ci piacciono i film catastrofici?

    Perché ci piacciono i film catastrofici?

    La catastrofe è una di quelle forme universali inconsce che Jung indica come archetipi dell’immaginario collettivo, una presenza costante fin dai miti sull’origine del mondo. Nulla di sorprendente quindi se alla rappresentazione della catastrofe sono legate molte forme d’arte e naturalmente i media spettacolari come cinema e televisione.

    Deep Impact

    Ma che cosa ci spinge a guardare un film catastrofico? Che cosa cerchiamo in uno spettacolo in cui persone come noi, per cui dovremmo provare empatia e compassione, sono esposte a tremendi pericoli, perdono la vita in modi più o meno orribili in incendi, terremoti, impatti con meteoriti, esplosioni nucleari?

    Catarsi

    Independence Day

    Esorcizziamo le nostre paure verso fenomeni al di là del nostro controllo che hanno una anche remota ma pur sempre esistente probabilità di verificarsi. Non solo: abbiamo la sensazione di viverli davvero e di uscirne illesi. Nei film apocalittici la distruzione mostrata è talmente eccessiva da poter essere tranquillamente ignorata come pericolo effettivo e apprezzata come puro spettacolo, tendenza sempre più in voga nella nuova ondata digitale del filone, da Twister a 2012. Se una nave che affonda è una possibilità remota del reale, un mondo distrutto da un attacco alieno ci sembra più accettabile di quello poco rassicurante che emerge nei telegiornali nei momenti di crisi internazionali. Inoltre, guardare la sofferenza e la morte di personaggi dello schermo per cui proviamo una breve ed evanescente empatia ci rende in qualche modo più sopportabile la coscienza della fine, nostra o altrui.

    Vedere l’impossibile

    The Day After Tomorrow

    Se il cinema è divertire, divergere dal quotidiano per esplorare le possibilità della visione impossibile, fa parte del divertimento la contemplazione della catastrofe: un film ci rende visibili, condensandoli in pochi minuti, cambiamenti geologici o climatici, di cui veniamo informati dalla scienza, reali ma non percepibili e comunque distanti, che avvengono in milioni di anni, definitivamente al di fuori della nostra portata temporale. Contemporaneamente, possiamo assistere da un luogo sicuro, la nostra poltrona, a fenomeni letali e terrificanti in modo dettagliato e iperrealista. Possiamo in definitiva cavalcare il tempo, guardare in faccia la morte, contemplarla e sopravvivere senza correre in realtà alcun rischio.

    Didattica

    The Day After

    Alcuni film catastrofici sono percorsi di iniziazione e sembrano riservare saggi consigli per la sopravvivenza: ci aspettiamo insomma di ricavare un insegnamento o ci illudiamo della sua utilità, per esempio che comportamento adottare in un palazzo in fiamme, durante un naufragio o un fallout nucleare, e al tempo stesso immaginare come ragiremmo in una situazione estrema. Un taglio docufiction, benché più inquietante, rincuora la nostra voglia di catastrofe attribuendola alla necessità di apprendere. Al film è delegata in parte l’antica tradizione orale che comprendeva la narrazione di terribili prodigi, immani distruzioni, castighi divini ma anche la scuola di sopravvivenza ai pericoli quotidiani..

    Spettacolo

    Jurassic Park

    Dall’Inferno di cristallo a Jurassic Park, passando per svariati Godzilla, i film catastrofici sono il luogo prediletto per la sperimentazione degli effetti speciali. Una spinta ad andare al cinema è ammirare lo stato dell’arte di trucchi che non sono limitati al confine irreale della fantascienza ma si calano nel mondo reale; vedere la distruzione un luogo familiare ci colpisce molto di più di quella di un pianeta di fantasia. Il pubblico desidera effetti sempre migliori e sempre più disastrosi, che surclassino ogni volta i precedenti: l’esagerazione della spettacolarità diventa spesso l’unico scopo, prevaricando su trama, recitazione ed eventuali messaggi.

    Sadomasochismo

    L'inferno di cristallo

    Proviamo paura e piacere nel vedere la sofferenza altrui? Se sì, un film catastrofico soddisfa la nostra componente sadomasochistica. Possiamo soffrire insieme ai nostri eroi, gioire per la scomparsa dei cattivi di turno, spesso travolti da un disastro da loro stessi provocato, immaginando di provare le loro stesse sensazioni di pericolo, angoscia e terrore. In questo senso funzionano meglio film basati su eventi fittizi che non quelli che ricostruiscono reali accadimenti storici, perché i primi non inducono il senso di rimorso che rischiamo di provare con i secondi.

    La catastrofe parla al corpo

    L'avventura del Poseidon

    Il nostro corpo reagisce, con aumento del battito cardiaco e rilascio di adrenalina, ai momenti di tensione, anche se simulata. Il film con effetti speciali da pugno nello stomaco viene visto fisicamente prima ancora che meditato e rielaborato. In qualche modo quindi il nostro corpo utilizza lo spettacolo per allenarsi alla reazione.

    Millenarismo di comodo

    The Walking Dead

    La catastrofe risolve i problemi della vita quotidiana: ci permette di ignorarli (di-verte) ma anche di pensare che sarebbero completamente superati in un mondo post catastrofico che, benché peggiore, ci metterebbe a disposizione un diverso grado di libertà. Nel film apocalittico vengono spesso soppressi o sovvertiti convenzioni sociali, norme e doveri: le circostanze eccezionali, la necessità della sopravvivenza e la distruzione dell’ordine costituito ci autorizzano al furto, all’uso delle armi, alla difesa estrema e primitiva.

  • Mad Max: Fury Road – La strada furiosa di George Miller

    Mad Max: Fury Road

    Valeva la pena aspettare trent’anni per un nuovo capitolo della saga di Mad Max: dopo una lunga pausa in cui ha girato tra gli altri Le streghe di Eastwick e Happy FeetGeorge Miller ha confezionato uno dei film più belli di questi tempi.

    Mad Max: Fury Road non è un sequel o un reboot (numerosi sono gli elementi che fanno pensare a entrambe le ipotesi, tra cui il controverso destino della V8 Interceptor) ma un episodio che si colloca temporalmente al livello del secondo capitolo, Il guerriero della strada. Unico personaggio in comune è il protagonista, incarnato però da un nuovo attore, Tom Hardy, che ha preso il posto dell’ormai “anzianotto” Mel Gibson.

    Mad Max: Fury Road

    Fury Road è esattamente così come si presenta nei suoi trailer: un unico, lungo, vertiginoso inseguimento on the road che lascia pochi istanti liberi a personaggi e spettatori per riprendere il fiato. È un assalto dilatato per due ore, due ore in cui il ritmo spinge sempre come i tamburi di guerra al seguito del cattivo di turno Immortan Joe. È un film furioso come la sua protagonista, ansioso di farci dimenticare vent’anni di computer graphics, pur presente in abbondanza, con le sue performance fisiche e reali già sul set (alcuni stunt sono stati ideati insieme agli acrobati del Cirque du Soleil).

    Mad Max: Fury Road

    Se la cultura ludica di questi anni lo filtra come un videogame, Fury Road è in realtà solidamente ancorato a un secolo di tradizione cinematografica, al modello rettilineo dell’eterno inseguimento: vi si riconoscono le calibrate gag del Generale di Keaton, la diligenza di Ombre rosse di Ford, i camion nel deserto di Convoy di Peckinpah, il tir impazzito di Duel di Spielberg. Da Spielberg sembra arrivare anche il nuovo Max, che ricorda l’Indiana Jones dell’Ultima crociata, personaggio eternamente ricondotto suo malgrado al ruolo iconico che la sua fama gli ha procurato, come pure i cavalieri pallidi o senza nome di Clint Eastwood., disillusi ma disposti ad aiutare una piccola comunità a difendersi dall’ingiustizia e destinati a riprendere un vagabondaggio solitario una volta compiute le loro missioni di soccorso.

    Mad Max: Fury Road

    Velocità e montaggio divengono da caratteristiche tipiche del cinema a oggetto del film, che da mezzo si fa messaggio; i fotogrammi da soli, privati del movimento, non riescono a raccontare la storia o dare vagamente l’idea dell’essenza puramente cinetica ed esperienziale dell’opera. Le inquadrature sono quasi sempre centrali sui soggetti dell’azione, il che consente un montaggio rapido mantenendo una lettura semplice e immediata: l’occhio ne rimane catturato, fisso sul bombardamento di immagini. I quasi unici colori sono l’azzurro intenso del cielo e il giallo accecante del deserto, alternati al blu profondo di un meraviglioso effetto notte, colori che rimangono impressi e sono parte integrante e identificativa della linea estetica del film.

    Mad Max: Fury Road

    La colonna sonora di Junkie XL sfonda la barriera diegetica ed entra in scena, con percussionisti taiko su ruote gettati all’inseguimento insieme a un chitarrista (l’australiano iOTA) dagli ossessivi riff che paiono usciti dai Nine Inch Nails. Dal Requiem di Verdi al metallico industrial, tutto confluisce in un wall of sound compatto che accompagna ininterrottamente l’azione di un film reso quasi muto dalla riduzione all’osso dei dialoghi, riduzione che trasforma in citazione da cult movie ogni singola battuta.

    Mad Max: Fury Road

    Paura e desiderio lasciano il posto a follia e istinto: nessuno qui dimostra incertezze; tutto si affronta senza temere le conseguenze, perché non c’è scelta o perché la strada della furia richiede l’arma della assoluta libertà che può coincidere solo con la pazzia. Nel mondo della pura sopravvivenza la violenza è la normalità: nessuna pietà, nessun compromesso, nessuna esitazione.

    Mad Max: Fury Road

    Ballardiano fino al midollo, Fury Road canta il mondo desertificato dall’apocalisse nucleare e l’immortale mito occidentale dell’automobile; dall’auto non si scende quasi mai e tutto avviene in corsa: dialoghi, convenevoli, medicazioni delle ferite e riparazioni ai motori. Ogni pezzo di ricambio è già stato usato e riciclato innumerevoli volte fino all’estrema consunzione; i veicoli hanno perso la loro forma originale, si scompongono e si sommano come i relitti di uno sfasciacarrozze, ammucchiati e schiacciati tra loro. Si vive per la macchina e la macchina è vita, va curata come un organo umano. Le rare soste sono i rifornimenti, con taniche agganciate alle fiancate che contengono indifferentemente benzina, olio, acqua o latte materno.

    Mad Max: Fury Road

    La protagonista femminile interpretata da Charlize Theron è un cyborg, l’avambraccio perso in chissà quali sofferenze: rapita da giovane alla sua comunità, Furiosa rivendica la sua parità o addirittura il predominio grazie alla conoscenza della tecnologia, il motore, suprema e ultima espressione della civiltà di un’epoca ormai dimenticata e di cui sopravvivono solo macchine residuali e archeologiche. Al femminile è demandato il futuro, di cui Furiosa e le altre donne si fanno custodi: la conservazione della vita, filiale o sotto forma di semi della madre terra. Anche gli uomini si rendono conto del loro valore, riducendole in schiavitù; ma “noi non siamo cose” dicono le Madri, rivendicando il loro diritto al libero arbitrio e demolendo definitivamente una società patriarcale.

    Mad Max: Fury Road

    Come nei due film precedenti, Mad Max: Fury Road celebra l’apoteosi delle subculture, in un mondo in cui quello che rimane della popolazione si è frammentato in piccole comunità, ognuna con la sue gerarchie, storie e credenze, garantendo con la sua sostanziale anomìa una sorta di libera anarchia dei valori anche per il singolo. L’universo descritto racchiude una complessità ben più ampia di quella che compare in scena, sottintendendo la presenza di numerosi gruppi dispersi nei deserti postatomici, probabili ambientazioni di una nuova, folle trilogia di Miller che la fine di questo film fa desiderare come una droga.

  • Oltre il Cyberpunk: le architetture postumane di Tsutomu Nihei

    Blame

    Tsutomu Nihei è un mangaka che mette a dura prova la lettura da parte degli otaku più accaniti. La storia del suo Blame! appare all’inizio incredibilmente complessa e fumosa; in realtà la si scopre poi essere quasi inesistente: si tratta solo di un espediente per trascinare il lettore attraverso duemila pagine di immagini, con pochi e per lo più misteriosi dialoghi. Ciò che affascina non è lo svolgersi di una trama bensì l’accumulo di ambienti e situazioni sempre nuove e sorprendenti. Il mondo di Blame! è il prodotto di innumerevoli mutazioni: la società si è frammentata lungo i piani di una megalopoli stratificata, che sale da profondi abissi di acciaio e cemento verso altissime torri che si perdono tra le nuvole; ogni volta che crediamo di aver raggiunto la cima scopriamo, come in una specie di arcade, di aver solo superato un livello e che un altro ci attende.

    Gli occupanti di questo specie di labirinto di Escher sono i rappresentanti di una nuova specie di umanità o forse solo una sua breve appendice sulla percorso che porta all’estinzione. Ci sono piccole comunità regredite a un livello medievale mentre altre appaiono ancora vivere immerse in un’alta tecnologia, anche se di recupero. Individui isolati sopravvivono in modi imprecisati, a volte prigionieri di macchine che perpetuano all’infinito le loro funzioni ormai prive di scopo, come la donna mantenuta in vita da un dispositivo di inseminazione che la costringe al contempo a partorire all’infinito. Tutto è riciclato o riadattato, nulla di nuovo si scopre o si produce ma si vive del residuo. Non vi è neppure spazio per aspirazioni umane: l’agire è motivato solo dalla sopravvivenza e dall’adempiere a missioni di origine remota che potrebbero essere ormai inutili. L’interazione sociale è ridotta al minimo indispensabile, semplice scambio di indicazioni e informazioni pratiche, se non velate minacce o aperte dichiarazioni di ostilità: un oltre vita che pare uscito dal trittico di Bosch senza alcun accenno però a un paradiso.

    Blame

    Ogni distinzione tra umano e macchina sembra impossibile: chiunque può rivelarsi indifferentemente composto di carne o metallo, biologico o elettronico; il confine tra naturale e artificiale è caduto e ha perduto ogni senso. Anche la stessa corporeità viene superata da esseri mutaforma e da rappresentazioni olografiche viventi.

    Tutta questa postumanità scompare di fronte alle architetture gigantesche che dominano le tavole, vero oggetto della rappresentazione di Nihei: quello di Blame! è un panorama interamente artificiale, dove ogni spazio disponibile è edificato, composto esclusivamente da immensi blocchi di cemento, tubi, macchinari in cui si aprono finestre, scale, condotti, enormi caverne o stretti cunicoli. Se protagonisti e comparse difettano di profondità e di uno spessore psicologico (non conosciamo praticamente nulla della loro vita e spesso rimaniamo indifferenti di fronte all’improvvisa apparizione di nuovi personaggi e alla loro altrettanto repentina e a volte inspiegabile scomparsa) è anche perché questi vengono costantemente schiacciati dalla sovrabbondanza edilizia: la vita umana è solo un residuo biologico dei suoi prodotti fuori controllo.

    Blame

    In Biomega, prequel di Blame! con cui in realtà condivide ben poco, vediamo una possibile nascita di questo nuovo mondo, dovuta apparentemente alla comparsa di un misterioso virus che trasforma gli uomini in una sorta di zombi mutanti in grado di fondersi tra loro e con gli edifici, causando la crescita incontrollata di biocittà di carne e roccia, fino a una catastrofe globale che coinvolge l’intero pianeta, deformandolo in una costruzione spaziale che si estende forse per milioni di chilometri.

    Biomega

    Gli ultimi residui di grandi zaibatsu tentano di riprendere il controllo prima della loro stessa dissoluzione; ma ogni tentativo pare destinato al fallimento di fronte all’ineluttabilità del destino e al predominio della materia.

    Il gigantismo delle strutture trionfa su tutto, come morte o neo-vita, monumento ed epitaffio dell’uomo: nulla sopravvive se non l’eterna mutazione e decadenza dell’architettura, non più ricerca ma pura autoriproduzione: come la Terra finale del ciclo di Anni senza fine di Simak, il mondo di Nihei è solo una gigantesca costruzione senza più scopo alcuno, condannata a perpetuarsi fino alla consunzione.

  • La catastrofe come malattia: Take Shelter

    Take Shelter

    Se la guerra del Vietnam aveva minato le sicurezze dell’americano medio, l’11 settembre le ha definitivamente fatte crollare. Gli statunitensi si ritrovano impauriti di fronte a un pericolo che hanno sempre considerato remoto e all’impreparazione delle istituzioni ad affrontarlo. Film come La guerra dei mondi o Cloverfield mostrano il punto di vista del cittadino e il suo smarrimento davanti alla catastrofe che colpisce inaspettatamente il suolo patrio. Take Shelter porta ancora più a fondo la riflessione, insinuando il senso del disastro in arrivo nella mente stessa del protagonista.

    Take Shelter

    La famiglia LaForche conduce una vita tranquilla, pur tra i problemi di una nazione in crisi, primo tra tutti quello dell’assistenza sanitaria per la piccola Hannah. Il padre, Curtis, inizia a soffrire di allucinazioni sempre più realistiche e spaventose, dominate dall’approssimarsi di una terribile tempesta. La paura diventa paranoia: Curtis pensa a un rifugio sotterraneo e per costruirlo perde il lavoro. Le visioni peggiorano e la vita dell’uomo diventa una continua ansia, fino a quando, sentendo il fragore della tempesta che si avvicina, costringe l’intera famiglia a entrare nel rifugio indossando maschere antigas.

    La catastrofe nel film di Jeff Nichols assume un ruolo strumentale, quello di rendere visibile l’angoscia e la malattia mentale del protagonista. Insieme a lui perdiamo ogni riferimento, sprofondando nella sua schizofrenia; l’incubo si fa indistinguibile dalla realtà; le visioni di Curtis sono solo allucinazioni o una forma di preveggenza?

    Take Shelter

    Take Shelter è un film su un’America che ha paura, sul bisogno di proteggersi da un pericolo terrificante e misterioso, senza una forma precisa e al tempo stesso dalle molte forme. L’orrore si presenta con immagini surreali ma definite: un gigantesco tornado, uno stormo di uccelli impazziti che ricordano quelli di Hitchcock, una pioggia sporca e oleosa che sa di inquinamento ambientale e di fall-out radioattivo. Come Tom Cruise nel War of the Worlds di Spielberg, Michael Shannon interpreta un padre spaventato che cerca disperatamente di mettere al sicuro la sua famiglia da una minaccia inspiegabile ma che si avvicina sempre più.

    Un finale aperto fa crollare le ultime certezze dello spettatore: Curtis è un folle? La sua follia ha contagiato i suoi cari o può essere finalmente compresa e affrontata dalla famiglia unita? Oppure la sua visione è reale e sta per travolgere tutti noi che l’abbiamo condivisa?

  • “Non per odio ma per amore”: gli “Orfani” della Sergio Bonelli

    Orfani

    Sono colpevole: da tempo immemore ormai non frequentavo la scuderia Bonelli, dopo essere stato per più di dieci anni un accanito fan di Dylan Dog dalle sue origini e successivamente aver soltanto dato uno sguardo distratto qua e là a successive creazioni come Nathan Never e Gea. Nel frattempo Sergio Bonelli se n’èandato e il mondo nato con Tex è fortunatamente arrivato indenne alla sua terza generazione. Su segnalazione del buon Giovanni Boccia Artieri ho scoperto Orfani con cui sto piacevolmente espiando le mie colpe.

    Da quasi un anno in edicola, Orfani è il primo albo del nuovo corso bonelliano, che prevede tra l’altro il rilancio di Dylan Dog in versione rivisitata, con ricambio di personaggi, stili e tematiche.

    Che Orfani sia una svolta per la Bonelli si vede sin dai primi numeri: un diverso segno grafico, per di più completamente a colori, il passaggio da episodi autoconclusivi a serie annuali (per il momento ne sono previste almeno due), un linguaggio più attuale, mutuato dal cinema, il tutto unito a una violenza inusuale per la casa editrice milanese.

    Orfani

    L’ambientazione è post-apocalittica, dopo che una catastrofe planetaria, un’immensa luce che ha travolto e distrutto buona parte dell’Europa, ha precipitato l’umanità in un’epoca oscura. Il mondo futuro è quello cupo di film come Terminator o Appleseed, costellato da macerie, mancanza di ordine, spietate persecuzioni e ribellioni. Ambienti e tecnologie macinano gli ultimi trent’anni di immaginario cinematografico, fumettistico e videoludico americano e giapponese, con citazioni continue, dai bambini-cavie di Akira di Katsuhiro Otomo ai marine ipertecnologici di Aliens di James Cameron. La grafica spettacolare trasforma gli ambienti in monocolori accesi, ora rossi, ora blu, con il freddo dello spazio e delle città in rovina che si contrappone al calore delle armi e degli amori.

    Orfani

    La storia scritta da Roberto Recchioni si svolge su due livelli temporali, seguendo l’evoluzione dei personaggi da bambini superstiti del disastro, orfani appunto, e contemporaneamente da adulti trasformati in macchine da guerra, attraverso uno spaventoso addestramento militare e le successive missioni.

    I dialoghi sono serrati, senza battute superflue, come se non ci fosse spazio per altro, con punte di cinico umorismo che si contrappongono alla freddezza degli ordini.

    Orfani

    I protagonisti, il cui folto numero all’inizio può disorientare, vengono via via falcidiati in un crudele gioco a eliminazione alla dieci piccoli indiani, in cui i personaggi scompaiono uno dopo l’altro, quasi mai per mano nemica quanto piuttosto per i severi allenamenti e i sempre più accesi scontri interni tra eroi che si trasformano da amici in rivali. Sì, perché tra i tanti dubbi che Orfani insinua il più tremendo è la scelta sulle parti da prendere: immersi nella liquidità postmoderna, senza indirizzo o fonti di informazioni affidabili, i “piccoli e spaventati guerrieri” si trovano spesso a dover decidere con chi schierarsi, a stabilire dove stiano il bene e il male, abbandonati nella guida e negli affetti, avendo come unici strumenti di discrimine se stessi e la propria coscienza.

    Orfani

    I confini dei sentimenti, lealtà, amicizia, amore, vacillano e si sfaldano di continuo, in un gruppo in cui prevalgono di volta in volta la scelta individuale, la fedeltà a un’istituzione o a un’ideale; ognuno segue una propria idea di verità, faticosamente costruita in un’infanzia di orrore e di duro addestramento oltre i limiti dell’umano, che costringe menti e corpi a una continua, dolorosa e a volte letale mutazione.

    Il lettore, travolto dai continui cambi di campo dei singoli personaggi, si trova a dover scegliere a sua volta da che parte stare; in Orfani non vengono proposte chiare e definitive distinzioni tra buoni o cattivi: siamo noi a decidere quali siano gli eroi e quali le canaglie e spesso un improvviso ribaltamento ci costringe a rivedere le nostre posizioni; sembra sempre esserci un’accusa, un errore e parimenti una scusa e una giustificazione per tutti. Ognuno opera a modo suo per la salvezza dell’umanità, anche attraverso l’annientamento altrui o la propria autodistruzione; nonostante il desiderio di vendetta imperi, in genere è l’amore, e non l’odio, a guidare le loro azioni.

    La pubblicazione è stata preceduta, altro fatto inedito per la Bonelli, dalla pubblicazione di un numero zero, una raccolta di illustrazioni scaricabile on line in formato Pdf che potete trovare sul sito ufficiale. Il resto, vivamente consigliato, in edicola o come arretrati.

  • Lo zombi come consumatore finale

    Zombi

    Caratteristica dei morti viventi è la cristallizzazione dei gesti di ogni giorno, ripetuti insensatamente e senza alcuno scopo all’infinito. Dopo la condanna della società punitiva della Notte dei morti viventi, con Zombi George A. Romero inaugura una serie di caricature dell’umanità capitalista: i cadaveri ambulanti tornano al centro commerciale perché rappresentava un punto di riferimento importante della loro vita: la spinta al consumo è così forte che anche dopo la morte rimane motore istintuale. Le mani che premono sulle porte a vetri chiuse sono quelle di consumatori che chiedono di essere ammessi al loro paradiso.

    Elemento fondamentale del perturbante dei morti viventi romeriani è l’inutilità dei loro atti, l’assenza di qualunque volontà, il non perseguire il bene o il male, il loro non progredire verso alcun obiettivo che non sia una sazietà irraggiungibile perché ciò che mangiano non può sfamarli; al tempo stesso la loro unica mira sembra una scelta cosciente di massa, un tentativo di annichilire vita e morte facendo scomparire i vivi ingurgitandoli o riducendoli a loro volta in nuovi morti viventi.

    Zombi

    Per i quattro rifugiati che si barricano nell’ipermercato questo costituisce un’oasi di salvezza ma anche la realizzazione del sogno consumistico attraverso il saccheggio, saccheggio che va oltre la semplice necessità di sopravvivenza e che contribuisce al raggiungimento di una vita agiata secondo gli standard capitalisti dell’omologazione a un modello di esibizione del benessere. Il deposito delle merci è diventato la nuova frontiera da conquistare e difendere come propria, il neo-Far West che contraddistingue il cinema post-apocalittico ma ridotto allo spazio dei prodotti. Al contempo, la banda dei teppisti in motocicletta transita immutata nelle abitudini dal vecchio al nuovo mondo: il vivere alla giornata e l’indifferenza alla proprietà non rappresentano per loro un cambiamento.

    Zombi

    Gli zombi si ritrovano a indossare i loro ultimi abiti da vivi; privi di ricordi consci e in definitiva di identità, la loro unica distinzione diviene per sempre il loro aspetto; i vestiti sono l’unico mezzo per tentare di ricostruire ciò che sono stati. Per il resto sono accomunati nel destino e nella fame, metafora dell’eredità estrema della società: gli zombi non sono cannibali, in quanto non si divorano tra loro; è la società nel suo insieme ad autocannibalizzarsi. Non è una necessità che spinge i morti a cibarsi dei vivi ma il tentativo di obbedire al dogma di un consumismo portato all’estremo.

    Si tratta di un consumismo terminale, in cui non esiste più produzione: zombi e sopravvissuti non creano più, si limitano a divorare l’esistente.  I morti viventi sono la sintesi ultima, i consumatori finali: l’umanità si autodivora senza alcuno scopo, verso un’entropia che unisce vita e morte, consumatori e consumati.

  • Morti che camminano e morti che corrono

    L'alba dei morti viventi
    I morti che corrono non mi piacciono. Non che abbia qualcosa in contrario a una efficiente deambulazione dei defunti, ma per me gli zombi che camminano strascicando i piedi sono migliori. C’è qualcosa di inquietante e definitivamente simbolico nel contrasto tra la facilità con cui si può abbattere un nemico lento, impacciato e rimbecillito rispetto all’essere letale di una massa di individui del genere.
    Detto questo, L’alba dei morti viventi di Zack Snyder è un buon film. Sfugge dal facile schema del remake riproponendo sì la medesima ambientazione dell’originale (il centro commerciale) ma costruendo un suo percorso, meno politico e splatter e più ironico, fracassone e forse ancor più pessimista dell’originale Zombi di George A. Romero.
    L'alba dei morti viventi
    Gli stereotipi del genere ci sono tutti, dallo stato di assedio alle lotte all’interno del gruppo di assediati, dal mondo apocalittico ai pasti a base di carne umana. L’apporto di Snyder sta nelle situazioni della quotidianità, come il dialogo a base di cartelli con un sopravvissuto isolato, e nella regia nervosa, nella visione globale dell’apocalisse, nell’immagine piena di disturbi elettronici che rende l’attualità del mezzo del racconto, mass-mediale e continuamente rimediante, con visioni pop tra reportage, videoclip e fumetto.
    Le citazioni per l’appassionato cinefilo si sprecano (il bagno da Shining e il predicatore televisivo da Zombi, tanto per citarne un paio); la musica diegetica del centro commerciale fa spesso da contrasto ironico e divertito all’azione.
    Peccato per i personaggi, che incarnano ruoli poco sviluppati, e per alcune scene imbarazzanti e gratuite. La carica sovversiva e underground si perde e il morto vivente passa da metafora della società a puro oggetto scenico di un action movie e corre come gli zombi di 28 giorni dopo di Danny Boyle.

  • Cronache del dopobomba

    Panic in year zero

    La fine della seconda guerra mondiale ha segnato l’ingresso nell’immaginario della catastrofe atomica. Per la prima volta l’uomo si è trovato in possesso dei mezzi per potersi autocostruire una sorta di apocalisse laica, che non ha bisogno di accadimenti naturali o interventi divini.

    Anche il cinema è rimasto ovviamente influenzato dalle conseguenze effettive o possibili dell’era atomica: dalle spaventose esplosioni di Hiroshima e Nagasaki il cinema ha tratto cronaca, denuncia, impegno civile e, come è nella sua natura, drammatizzazione e spettacolo.

    L’incubo atomico compare in innumerevoli pellicole; siano queste ricostruzioni storiche, ipotesi future o divertenti e fracassoni Kaiju eiga, si tratta comunque di documenti che testimoniano come la minaccia atomica in tutte le sue forme abbia fatto parte di una coscienza collettiva ampiamente condivisa nel periodo della Guerra fredda.

    Il filone post apocalittico atomico è dominato dall’illustrazione del dopobomba: le conseguenze del fallout nucleare, la sofferenza e la disperazione dei sopravvissuti, la difficoltà della vita quotidiana nel nuovo medioevo sono tutte caratteristiche della retorica del genere.

    L'ultima spiaggia

    L’ultima spiaggia di Stanley Kramer narra di un sommergibile americano che, qualche tempo dopo la terza guerra mondiale, vaga alla ricerca di luoghi ancora vivibili in un pianeta avvelenato dalle radiazioni. La missione è però destinata al fallimento: non ci sono più posti sicuri e il mondo è ormai un deserto; tutti i protagonisti muoiono uno dopo l’altro, in incidenti o suicidandosi; dettaglio amaro e ironico, quello che sembrava un ultimo segnale di vita si rivela essere una bottiglia di Coca-Cola che sbatte, sospinta dal vento, contro il tasto di un telegrafo.

    Il pianeta delle scimmie

    La saga del Pianeta delle scimmie, iniziata con il film omonimo da Franklin J. Schaffner, ci porta a secoli di distanza nel futuro, dove quello che sembra all’inizio un remoto pianeta, dominato da scimmie evolute, si rivela essere la Terra molto tempo dopo la guerra atomica. L’invettiva finale pronunciata da Charlton Heston di fronte a quello che rimane della Statua della Libertà è uno dei momenti più celebri della storia del cinema.

    The Day After

    Vero caso televisivo, The Day After, da noi proiettato anche al cinema con enorme successo, pur non avendo grandi qualità filmiche ha suscitato un dibattito mondiale sulla corsa agli armamenti e ha probabilmente contribuito a una generale presa di coscienza dei terribili effetti di una ipotetica guerra nucleare. Il film mostra l’impatto della terza guerra mondiale sul microcosmo di Kansas City e dintorni, usando (nel bene e nel male) tutta la retorica del disaster movie. Pur dipingendo la generale sconfitta dell’intera umanità in una guerra che non permette di distinguere tra vincitori e vinti, The Day After è comunque saturo di patriottismo USA e rivela una (minima) dose di fiducia nella sopravvivenza delle istituzioni.

    Threads

    Simile, anche se di altro tenore, è un’altra produzione televisiva, questa volta della britannica BBC: Threads, trasmesso in Italia con il titolo Ipotesi sopravvivenza. Girato come un gelido e spietato docudrama, il film segue le vicende di due famiglie della cittadina inglese di Sheffield prima e dopo l’attacco atomico, fino a qualche anno nel futuro. L’orrore in Threads è reso ancora più terribile dal contrasto tra l’angosciante storia dei personaggi e la fredda, didattica descrizione degli avvenimenti, con dati sugli ipotetici megatoni caduti sulla Gran Bretagna, procedure di emergenza, stime sui numeri delle vittime. Terrificante è la scena dell’uscita dal rifugio della protagonista, che muove i suoi primi passi nel mondo devastato. Lo stile documentaristico è mutuato da un precedente televisivo, sempre della BBC, The War Game, considerato all’epoca troppo perturbante per essere trasmesso in televisione. Colpiscono, qui come in Threads, gli sguardi in macchina dei sopravvissuti, terrorizzati, smarriti, accusatori.

    Quando soffia il vento

    Ancora britannico è il film di animazione Quando soffia il vento, tratto dal fumetto di Raymond Briggs, tenera storia di due vecchietti della campagna inglese colpiti dalle radiazioni del bombardamento, che cercano di affrontare con calma la situazione seguendo i consigli del governo e la loro esperienza della seconda guerra mondiale, non riuscendo a immaginare le incomparabili differenze di quest’ultima con la moderna guerra nucleare. Evocativa colonna sonora di Roger Waters, con interventi di David Bowie, Genesis e altri.

    Hadashi no Gen

    Non vive invece in una immaginaria terza guerra mondiale ma nell’atroce realtà storica del bombardamento di Hiroshima la serie di film tratta dal fumetto Hadashi no Gen, basato sulle personali esperienze dell’autore Keiji Nakazawa. Il più riuscito è il commovente anime del 1983, fedele ricostruzione che mostra con stile espressionista lo scoppio della bomba e la dura vita dei giorni successivi dal punto di vista del piccolo protagonista.

    Con la memoria del bombardamento atomico sul Giappone e la difficoltà del raccontarlo a chi non l’ha vissuto si confrontano anche i due grandi registi Alain Resnais e Akira Kurosawa, rispettivamente con Hiroshima mon amour e Rapsodia in agosto.

    Terminator

    Notti squarciate da lampi laser, robot assassini, tappeti di teschi triturati dai cingoli di gigantesche macchine: è il futuro apocalittico e cupo del ciclo di Terminator, dove gli ultimi residui dell’umanità si nascondono nei sotterranei e combattono contro la loro stessa creazione. Skynet è una versione ipertecnologica dell’”ordigno fine di mondo” del Dottor Stranamore, un network di computer della difesa che diventa autocosciente e inizia una guerra nucleare per sterminare i suoi creatori che vogliono tardivamente spegnerlo.

    Sperimentale e poco conosciuto è La Jetée; girato in Francia da Chris Marker, il film è composto quasi interamente da un montaggio di fotografie che mostrano gli effetti della guerra atomica su Parigi e gli sforzi dei sopravvissuti di cercare una soluzione alla loro condizione con viaggi nel tempo. La pellicola ha ispirato Terry Gilliam per il suo L’esercito delle 12 scimmie.

    In Italia un intero filone, derivato dall’immaginario di 1997: fuga da New York di John Carpenter, utilizza il dopoguerra nucleare come pretesto per un’ambientazione di rovine e senza più controllo, dove gli avanzi della società si trovano a combattere tra loro o contro governi autoritari. Vale la pena di menzionare I nuovi barbari, 1990 I guerrieri del Bronx e 2019 Dopo la caduta di New York.

    Il titolo di questo post è un piccolo furto ai danni di Bonvi e del suo Cronache del dopobomba, a sua volta citazione del titolo italiano di un romanzo di P.K. Dick. Bonvi porta in una terra futura distrutta dalla guerra nucleare lo stile ironico e dissacrante di Sturmtruppen, rendendolo ancor più eccessivo e cinico.

    Cronache del dopobomba

  • Apocalissi d’autore

    Il filone catastrofico è certamente commerciale; eppure i suoi archetipi, specie quelli del genere apocalittico, sono stati presi a prestito da registi più tipicamente ascrivibili alla categoria degli autori, che ne hanno usato l’immaginario per metafore nel contesto di un percorso personale. Si tratta quasi sempre di pellicole dominate dal pessimismo, che lasciano poco spazio alla speranza o alla redenzione e in cui l’uomo viene spesso condannato a scomparire, a volte per sua stessa mano, in un cupio dissolvi autopunitivo, altre volte per elementi esterni superiori all’umana volontà e quasi divini.

    Il Dottor Stranamore

    Stanley Kubrick usa l’incombente minaccia della guerra nucleare per mostrare nuovamente con amara ironia la sua disillusione nei confronti dell’opera umana. Nel Dottor Stranamore passa una sfilata di personaggi caricaturali non all’altezza della situazione o comunque incapaci di controllare un sistema di difesa da loro stessi creato e, in definitiva, di impedire una fine del mondo che proprio quello stesso sistema avrebbe dovuto invece scongiurare.

    Il seme dell'uomo

    Nel divertito nichilismo di Marco Ferreri affonda l’umanità di Il seme dell’uomo: nell’arco di pochi minuti una misteriosa catastrofe, di cui vediamo solo residuali immagini televisive che mostrano intere città in fiamme, stermina l’umanità, lasciando ai pochi sopravvissuti il compito di ripopolare la Terra; ma un insondabile destino si accanirà anche contro gli ultimi superstiti, condannandoli a scomparire.

    Quintet

    Un amaro pessimismo avvolge anche Quintet di Robert Altman: in un mondo simbolicamente e irrimediabilmente avvolto dai ghiacci, dove una civiltà in estinzione ha rinunciato a qualunque progresso, tutto quello che resta è ingannare l’attesa della fine partecipando a un gioco che conferisce al vincitore diritto di vita e di morte sugli altri partecipanti. Come scoprirà il protagonista, l’unico senso finale del gioco è il gioco stesso.

    Sogni

    Anche Akira Kurosawa nel suo Sogni vede un futuro disperato, all’interno di una visione onirica e ammonitrice: in un episodio il vulcano Fujiama, simbolo stesso del Giappone, erutta distruggendo una centrale nucleare costruita alle sue pendici; per sfuggire alla radioattività, il popolo scompare in mare, suicidandosi. Restano un uomo, una donna e un bambino, che cercano invano di allontanare il colorato vento radioattivo sventolando la giacca, in un estremo gesto di disperazione. Ancor più cupo è l’episodio successivo: in un panorama ormai nero e indistinto, costellato di piccoli laghi color sangue e mostruosi fiori, resi giganteschi dalle radiazioni, gli ultimi residui dell’umanità si spengono tra lotte per la sopravvivenza e atroci dolori prococati dalla crescita di demoniache corna sulla testa.

    Fino alla fine del mondo

    Sempre la minaccia nucleare, questa volta a causa del possibile rientro nell’atmosfera di un satellite fuori controllo, domina nella trama di Fino alla fine del mondo di Wim Wenders, (che già era passato per l’apocalittico film nel film di Lo stato delle cose) in un road movie che celebra il disfacimento dell’immagine e la salvifica parola scritta; i protagonisti ripercorrono il cammino dell’umanità, dalla vecchia Europa all’Australia, verso la creazione di una macchina magica che si dimostrerà capace di registrare i sogni.

    Melancholia

    La depressione come risorsa nella fine è invece uno dei temi di Melancholia. Con la consueta crudeltà nei confronti dei suoi personaggi, il regista Lars von Trier ripesca dalla fantascienza classica lo scontro tra corpi celesti per esplorare sentimenti e paure di un piccolo gruppo di fronte alla inevitabile scomparsa della Terra, destinata a entrare in collisione con un gigantesco pianeta.

  • L’onda digitale della catastrofe

    2012

    Dopo una lunga e quasi ininterrotta pausa, è grazie alla computer graphic che i disaster movie tornano nuovamente ai fasti degli anni ’70.

    Il banco di prova tecnologico è Jurassic Park di Steven Spielberg. Partito con l’idea di realizzare i suoi dinosauri con tecniche tradizionali (stop motion e animatroni), il regista si convince a passare a una nuova tecnologia dopo una efficace dimostrazione dei tecnici della ILM, che realizzano creature completamente digitali con livelli di dettagli e realismo mai raggiunti prima.

    Il primo vero film catastrofico dell’era digitale è Twister, che porta sullo schermo, complice ancora la ILM, una serie di convincenti e spettacolari tornado (e purtroppo non molto altro, a causa soprattutto di una sceneggiatura debole e personaggi male abbozzati); le spaventose trombe d’aria che devastano l’Oklahoma intrattengono un pubblico che si scopre di nuovo affamato di disastri da contemplare senza pensieri.

    Il titolo di re della nuova onda digitale della catastrofe spetta però a Roland Emmerich, che dal 1996 in poi porta al cinema rappresentazioni di disastri sempre più devastanti: Independence Day, l’ennesimo Godzilla (remake però del Risveglio del dinosauro), The Day After Tomorrow e 2012 sono solo alcuni dei successi di un regista il cui principale interesse sembra essere quello di stupire e ammaliare il pubblico con uno spettacolo di pura distruzione che si fa via via sempre più planetaria e biblica.

    Rispuntano anche le care vecchie meteore, principalmente con Armageddon di Michael Bay e Deep Impact di Mimi Leder; usciti nella stessa estate del 1998, i due film possono contare rispettivamente sulle spacconate del trivellatore Bruce Willis e sugli accorati appelli del Presidente USA Morgan Freeman, oltre naturalmente a una buona dose di computer graphics.

    Caratteristica che emerge sempre di più in queste pellicole è la voglia di intrattenere senza pensieri il pubblico, limitando al minimo riflessioni sulla trama ed empatia con i personaggi e spostando l’attenzione esclusivamente al livello visuale: il digitale è qui per divertirci, pare essere il messaggio e i trailer di questi film sembrano i demo cinematici dei videogame. Certo emerge una buona dose di apocalittico millenarismo, specie in The Day After Tomorrow e 2012, che fa pensare a una preoccupazione ormai condivisa nell’immaginario collettivo per i disastri naturali e i cambiamenti climatici (e per inesistenti profezie di popoli antichi, astutamente utilizzate come richiamo commerciale); ad attirare gli spettatori contribuisce certamente anche un bisogno catartico; ma ciò che appare più evidente è la volontà voyeuristica di apprezzare la catastrofe fin nei minimi dettagli, ad “alta risoluzione”, di contemplare le meravigliose e apparentemente infinite possibilità del digitale.

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